giovedì 12 febbraio 2015

The Hurt Locker (The Hurt Locker, 2009) di Kathryn Bigelow

Una squadra speciale dell’esercito americano in Iraq si occupa di missioni pericolose ad altissimo rischio di mortalità: scovare e disinnescare gli ordigni esplosivi nascosti dal nemico sul campo di battaglia, per consentire l’avanzamento delle truppe regolari e lo svolgimento dei propri compiti operativi. Le cose assumono connotati ancora più tragici quando, a capo del gruppo, arriva il sergente William James, esperto di esplosivi, glaciale e coraggioso al limite dell’incoscienza, talmente addentrato nell’inferno della guerra da sfidare la morte in ogni occasione, senza alcun apparente timore. Con il termine “hurt locker” (letteralmente, armadietto del dolore) s’intende il cassettino dove vengono chiusi gli effetti personali di un soldato morto in guerra, prima di riconsegnarli ai familiari. Ma i militari americani impegnati nella guerra irachena adottano l’espressione anche per indicare, nel loro slang, un luogo pericoloso, una sorta di trappola mortale da cui sarebbe meglio allontanarsi al più presto. Su questa ambiguità semantica Kathryn Bigelow ha costruito un film potente, angosciante, carico di patos dalla prima all’ultima inquadratura, ma anche ondivago, frammentario, spiazzante per la sua mancanza di un’autentica trama, di un punto di vista netto o di una scelta di campo politica su una questione così scottante. La regista, come sempre abilissima nel costruire immagini possenti e nel collegarle con un sapiente meccanismo di costruzione della tensione, appare più che altro interessata ad un dilemma etico, un problema esistenziale che rappresenta il senso intimo del film: la sottile linea di confine tra il coraggio e la follia, l’eroismo e il fanatismo, il senso del dovere e l’adrenalina della guerra, del pericolo, della morte, fino a divenirne schiavo. In tal senso va letto il personaggio del sergente James, un “war aholic” dei giorni nostri, volontario, monolitico nella sua volontà di sfidare la morte ogni giorno nel paesaggio lunare del deserto iracheno, incapace di vivere una vita normale, nonostante abbia una famiglia, a casa, che lo aspetta. William James è il simbolo di ciò che la guerra fa alla mente di chi la combatte, ti entra dentro, ti cambia per sempre e non se ne esce mai più: la guerra “dentro” non ha mai fine. In questo risiede il senso di “denuncia” più grande di questo agghiacciante dramma della Bigelow che, nonostante l’elevata spettacolarità tragica delle principali scene d’azione, intende indagare il lato psicologico del conflitto, la sua capacità di trasformare lo spirito umano, privandolo della capacità di vivere. Singolare e coraggiosa la scelta di lasciare fuori fuoco gli attori principali (Ralph Fiennes, David Morse e Guy Pearce), tenendoli in scena per pochi minuti e facendone morire due, assegnando, invece, i ruoli primari ad attori meno noti, almeno nell’anno di uscita del film, come il convincente Jeremy Renner. Nonostante qualche scivolone retorico nel finale, la pellicola resta un apologo lucido ed inquietante sulla “cultura” della guerra, sul cuore nero del militarismo che trasforma in deserto l’animo umano. Elogiato quasi unanimemente dalla critica, ha vinto una miriade di premi, tra cui 6 Oscar (miglior film, regia, sceneggiatura, montaggio, sonoro e montaggio sonoro) e concedendosi persino il lusso di battere, nella corsa alle statuette, il fenomeno cinematografico dell’anno: Avatar di James Cameron.

Voto:
voto: 4/5

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