Quattro vicende apparentemente sconnesse
in tre angoli diversi del mondo. Una coppia americana in vacanza in Marocco,
per cercare di risanare un rapporto ormai logoro, piomba nella tragedia
improvvisa per un’assurda fatalità: due ragazzini incoscienti sparano con un
fucile da un’altura e colpiscono al collo la donna, mentre, ignara, è in
viaggio su un autobus. Una governante messicana, nel giorno delle nozze di suo
figlio, dovendo badare ai figli minorenni della coppia americana, decide di
portarli con sé alla cerimonia, ma finiranno persi nel deserto. Una ragazza
adolescente giapponese, sordomuta, con gravi problemi emotivi e alla disperata
ricerca dell’amore, cerca di attirare le altrui attenzioni con un comportamento
sessualmente audace, in una Tokyo fredda e distante. La quarta linea narrativa
è quella dei due ragazzini marocchini e della loro famiglia di pastori, che
deve fare i conti con il deterioramento degli antichi valori tradizionali di
fronte all’indecenza del nuovo che avanza. Le storie parallele hanno un
elemento che le unisce, un conduttore comune che, seppure in modo involontario,
ne influenza gli esiti, in un imponderabile effetto domino. Dopo il grezzo, ma
sincero e potente, Amores
Perros ed il lancinante, ma prolisso, 21 grammi,
Iñárritu torna sul tema del dolore umano, delle storie parallele che
s’intersecano, creando un insieme straniante di segmenti narrativi che immerge
lo spettatore in un universo di cupa disperazione, portandolo a riflettere
sugli scherzi del fato. Ancora una volta l’autore messicano mette al centro
della sua poetica gli arabeschi del destino, l’imprevedibile “effetto
farfalla”, oggetto di studio di affascinanti teorie pseudofilosofiche di
matrice “new age”. Con l’ormai abituale struttura a puzzle che deframmenta le
sottotrame, costringendo lo spettatore ad un surplus di attenzione, il regista mette in campo, con questo Babel, il suo film più ambizioso: una
Babele di umana afflizione ripartita in tre continenti, quattro lingue,
differenti fusi orari, volti, luci e suoni diversi, culture tra loro
lontanissime, ma tutte unite dal filo della sofferenza e dell’incomprensione.
Eliminando quasi del tutto gli eccessi aspri delle pellicole precedenti, Iñárritu
opta per una messa in scena più rarefatta, che aspira all’astrazione allegorica,
ma finisce per incappare in un’eccessiva cerebralità, in un formalismo sterile
così patinato da scadere nel manierismo autoreferenziale. Nel grande cast
corale, che si concede persino il lusso di due divi come Brad Pitt e Cate
Blanchett, brillano soprattutto gli attori sconosciuti dell’episodio giapponese
e di quello marocchino, relativo alla famiglia di pastori, che costituiscono
anche le parti più riuscite della pellicola. Iñárritu è un promettente regista
di talento appiattito sul filo dell’artificio, la cui evidente voglia di essere
originale lo spinge su costruzioni macchinose e ridondanti. Una maggiore
semplicità e purezza espressiva aiuterebbe. Per fortuna, sua e nostra, è
arrivato Birdman,
il film della svolta.
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