venerdì 6 febbraio 2015

Babel (Babel, 2006) di Alejandro González Iñárritu

Quattro vicende apparentemente sconnesse in tre angoli diversi del mondo. Una coppia americana in vacanza in Marocco, per cercare di risanare un rapporto ormai logoro, piomba nella tragedia improvvisa per un’assurda fatalità: due ragazzini incoscienti sparano con un fucile da un’altura e colpiscono al collo la donna, mentre, ignara, è in viaggio su un autobus. Una governante messicana, nel giorno delle nozze di suo figlio, dovendo badare ai figli minorenni della coppia americana, decide di portarli con sé alla cerimonia, ma finiranno persi nel deserto. Una ragazza adolescente giapponese, sordomuta, con gravi problemi emotivi e alla disperata ricerca dell’amore, cerca di attirare le altrui attenzioni con un comportamento sessualmente audace, in una Tokyo fredda e distante. La quarta linea narrativa è quella dei due ragazzini marocchini e della loro famiglia di pastori, che deve fare i conti con il deterioramento degli antichi valori tradizionali di fronte all’indecenza del nuovo che avanza. Le storie parallele hanno un elemento che le unisce, un conduttore comune che, seppure in modo involontario, ne influenza gli esiti, in un imponderabile effetto domino. Dopo il grezzo, ma sincero e potente, Amores Perros ed il lancinante, ma prolisso, 21 grammi, Iñárritu torna sul tema del dolore umano, delle storie parallele che s’intersecano, creando un insieme straniante di segmenti narrativi che immerge lo spettatore in un universo di cupa disperazione, portandolo a riflettere sugli scherzi del fato. Ancora una volta l’autore messicano mette al centro della sua poetica gli arabeschi del destino, l’imprevedibile “effetto farfalla”, oggetto di studio di affascinanti teorie pseudofilosofiche di matrice “new age”. Con l’ormai abituale struttura a puzzle che deframmenta le sottotrame, costringendo lo spettatore ad un surplus di attenzione, il regista mette in campo, con questo Babel, il suo film più ambizioso: una Babele di umana afflizione ripartita in tre continenti, quattro lingue, differenti fusi orari, volti, luci e suoni diversi, culture tra loro lontanissime, ma tutte unite dal filo della sofferenza e dell’incomprensione. Eliminando quasi del tutto gli eccessi aspri delle pellicole precedenti, Iñárritu opta per una messa in scena più rarefatta, che aspira all’astrazione allegorica, ma finisce per incappare in un’eccessiva cerebralità, in un formalismo sterile così patinato da scadere nel manierismo autoreferenziale. Nel grande cast corale, che si concede persino il lusso di due divi come Brad Pitt e Cate Blanchett, brillano soprattutto gli attori sconosciuti dell’episodio giapponese e di quello marocchino, relativo alla famiglia di pastori, che costituiscono anche le parti più riuscite della pellicola. Iñárritu è un promettente regista di talento appiattito sul filo dell’artificio, la cui evidente voglia di essere originale lo spinge su costruzioni macchinose e ridondanti. Una maggiore semplicità e purezza espressiva aiuterebbe. Per fortuna, sua e nostra, è arrivato Birdman, il film della svolta.

Voto:
voto: 3/5

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