La giovane orfana Viridiana, in attesa di
prendere i voti come suora, fa visita al vecchio zio, Don Jaime, e trascorre
del tempo nella sua sfarzosa villa. Ma gli eventi faranno sì che la ragazza non
partirà più dalla casa: lo zio s’innamora perdutamente di lei, ma, rifiutato,
si toglie la vita, impiccandosi. Viridiana, morsa dai sensi di colpa, decide
allora di restare nella tenuta per adoperarsi ma, dopo un’invasione da parte di
uno stuolo di poveri derelitti, che si abbandonano ad un’orgia di cibo e di
sesso, la ragazza finisce coinvolta in una morbosa relazione sessuale con il libertino
cugino Jorge e la sua amante Ramona. Capolavoro sarcastico di Buñuel, geniale
nella sua provocatoria dimensione surreale che regala momenti visionari di alto
risalto polemico, è intriso di una graffiante critica alla religione cattolica
ed al moralismo delle convenzioni sociali borghesi, come d’abitudine per il
grande autore spagnolo. Fece scandalo per la famosa scena dell’orgia, in cui i
laidi reietti si dispongono, a tavola, come gli apostoli nell’ultima cena, inscenandone
un’acre parodia, in cui la carica “blasfema” è mitigata dalla sublimazione
onirica. La figura, simbolica, di Viridiana è quella di una santa
“impossibile”, la negazione dell’utopia ascetica fondata sulla totale rinuncia
ai piaceri del corpo, alle tentazioni della carne, al “peccato”, che è
intimamente connotato con la natura umana e, quindi, inestirpabile. La tematica
scottante, e, inevitabilmente, scandalosa, viene affrontata, dal grande Maestro
di Calanda, con l’abituale irrequietezza creativa, la cui anima laica è più sardonica
che realmente riottosa. Infatti l’intento iconoclasta del regista non intende
offendere la cultura cristiana in toto, né, tanto meno, sparare a zero sui
fondamenti religiosi, ma, piuttosto, dissacrare la diffusa ipocrisia popolare
che porta ad accettarne dogmi e rituali in nome di una convenzione
superficialmente accettata, e, quindi, passivamente subita, piuttosto che
realmente sentita. La pungente ironia dell’autore separa, con sottile lucidità,
la fede dalla tradizione, lo spiritualismo dalla consuetudine folcloristica, le
cui apparenti certezze non hanno mai vacillato solo perché mai realmente sottoposte
ad una riflessione obiettiva, critica e libera da atavici tabù di matrice
seicentesca. Viridiana, simbolo dell’essere umano fallace e peccatore, incarna
il senso inesorabile di sconfitta di fronte alla ricerca della Grazia divina, chimera
irraggiungibile in un mondo oscuro in cui è sempre l’egoismo individuale a
prevalere sulle edificanti ambizioni di solidarietà. Il finale, nero e
nichilista, seppellisce definitivamente gli ardori di spirituale cristianità
sotto la coltre dell’agiatezza economica, segnando anche il passaggio
definitivo, nella poetica dell’autore, dal vecchio potere latifondista (lo zio
Jaime) alla nuova borghesia rampante (il cugino Jorge), ricettacolo del
disvalore morale contemporaneo, ed eterno oggetto d’interesse del grande
“vecchio” di Calanda. Quest’opera controversa, stimolante e pessimista, segnò
il ritorno di Buñuel alla sua terra natia, la Spagna, dopo l’esilio messicano di circa 20 anni,
e gli provocò le aspre invettive del Vaticano, che boicottò il film, bollandolo
come “blasfemo” ed offensivo nei confronti dell’intera comunità cattolica. La
pellicola riscosse, comunque, un ampio consenso di critica e venne premiata con
la Palma d’Oro
al Festiva di Cannes del 1961 dai più liberali, e coraggiosi, francesi.
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