martedì 3 febbraio 2015

Viridiana (Viridiana, 1961) di Luis Buñuel

La giovane orfana Viridiana, in attesa di prendere i voti come suora, fa visita al vecchio zio, Don Jaime, e trascorre del tempo nella sua sfarzosa villa. Ma gli eventi faranno sì che la ragazza non partirà più dalla casa: lo zio s’innamora perdutamente di lei, ma, rifiutato, si toglie la vita, impiccandosi. Viridiana, morsa dai sensi di colpa, decide allora di restare nella tenuta per adoperarsi ma, dopo un’invasione da parte di uno stuolo di poveri derelitti, che si abbandonano ad un’orgia di cibo e di sesso, la ragazza finisce coinvolta in una morbosa relazione sessuale con il libertino cugino Jorge e la sua amante Ramona. Capolavoro sarcastico di Buñuel, geniale nella sua provocatoria dimensione surreale che regala momenti visionari di alto risalto polemico, è intriso di una graffiante critica alla religione cattolica ed al moralismo delle convenzioni sociali borghesi, come d’abitudine per il grande autore spagnolo. Fece scandalo per la famosa scena dell’orgia, in cui i laidi reietti si dispongono, a tavola, come gli apostoli nell’ultima cena, inscenandone un’acre parodia, in cui la carica “blasfema” è mitigata dalla sublimazione onirica. La figura, simbolica, di Viridiana è quella di una santa “impossibile”, la negazione dell’utopia ascetica fondata sulla totale rinuncia ai piaceri del corpo, alle tentazioni della carne, al “peccato”, che è intimamente connotato con la natura umana e, quindi, inestirpabile. La tematica scottante, e, inevitabilmente, scandalosa, viene affrontata, dal grande Maestro di Calanda, con l’abituale irrequietezza creativa, la cui anima laica è più sardonica che realmente riottosa. Infatti l’intento iconoclasta del regista non intende offendere la cultura cristiana in toto, né, tanto meno, sparare a zero sui fondamenti religiosi, ma, piuttosto, dissacrare la diffusa ipocrisia popolare che porta ad accettarne dogmi e rituali in nome di una convenzione superficialmente accettata, e, quindi, passivamente subita, piuttosto che realmente sentita. La pungente ironia dell’autore separa, con sottile lucidità, la fede dalla tradizione, lo spiritualismo dalla consuetudine folcloristica, le cui apparenti certezze non hanno mai vacillato solo perché mai realmente sottoposte ad una riflessione obiettiva, critica e libera da atavici tabù di matrice seicentesca. Viridiana, simbolo dell’essere umano fallace e peccatore, incarna il senso inesorabile di sconfitta di fronte alla ricerca della Grazia divina, chimera irraggiungibile in un mondo oscuro in cui è sempre l’egoismo individuale a prevalere sulle edificanti ambizioni di solidarietà. Il finale, nero e nichilista, seppellisce definitivamente gli ardori di spirituale cristianità sotto la coltre dell’agiatezza economica, segnando anche il passaggio definitivo, nella poetica dell’autore, dal vecchio potere latifondista (lo zio Jaime) alla nuova borghesia rampante (il cugino Jorge), ricettacolo del disvalore morale contemporaneo, ed eterno oggetto d’interesse del grande “vecchio” di Calanda. Quest’opera controversa, stimolante e pessimista, segnò il ritorno di Buñuel alla sua terra natia, la Spagna, dopo l’esilio messicano di circa 20 anni, e gli provocò le aspre invettive del Vaticano, che boicottò il film, bollandolo come “blasfemo” ed offensivo nei confronti dell’intera comunità cattolica. La pellicola riscosse, comunque, un ampio consenso di critica e venne premiata con la Palma d’Oro al Festiva di Cannes del 1961 dai più liberali, e coraggiosi, francesi.

Voto:
voto: 5/5

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