martedì 10 febbraio 2015

La vita è bella (La vita è bella, 1997) di Roberto Benigni

Arezzo, 1938: Guido Orefice, ebreo italiano che lavora come cameriere in un hotel, appassionato di poesia e dai modi giullareschi, s’innamora della maestrina Dora, già promessa ad un burocrate fascista. Per nulla intimorito riuscirà a conquistarla con un corteggiamento assillante, fatto di trovate pittoresche, sorprese veementi, ma non prive di tenerezza. Sei anni dopo Guido e Dora sono felicemente sposati ed hanno un figlio, il piccolo Giosuè. Ma, quando iniziano le persecuzioni naziste contro gli ebrei, l’intera famiglia verrà deportata in un campo di concentramento, persino Dora che, pur non essendo ebrea, ha deciso di seguire la sorte di marito e figlio di propria volontà. L’intrepido Guido non si perde d’animo e si fa forza per cercare di salvare il figlio, preservandogli non solo la vita ma anche l’innocenza di fronte ad un simile orrore. Riesce così a tenerlo nascosto nelle camerate e gli fa credere che tutto quello che stanno passando sia, in realtà, un grande gioco di finzione, una sorta di nascondino generale in cui i soldati si fingono cattivi ed i più deboli saranno squalificati, rinunciando così al gran premio finale: un carro armato. Grande successo mondiale di pubblico e critica, ha commosso gli spettatori di ogni latitudine diventando il fenomeno cinematografico del 1997. Premiato ed acclamato praticamente ovunque, ha vinto tutto ciò che si poteva vincere: Gran Premio Speciale della Giuria al Festival di Cannes, BAFTA Awards e tre premi Oscar: miglior film straniero, Benigni attore protagonista e la struggente colonna sonora di Nicola Piovani. Ma, come a volte accade nei casi di consenso plebiscitario, ci troviamo di fronte ad un’opera indubbiamente coraggiosa, per l’accostamento della più grande tragedia storica del ‘900 al registro della commedia, ma anche grossolana, astuta, trasognata, quasi irritante per la manipolazione superficiale della storia, per l’alta retorica sentimentale di cui abbonda e per l’andamento “elefantiaco” della seconda parte, volta unicamente ad arrivare al tripudio finale, che è un’esplosione di enfasi strappalacrime, “scientificamente” progettata su emozioni a buon mercato. L’intero atto finale dell’opera, che vira decisamente nel favolistico per sospendere l’incredulità, non possiede la grazia necessaria ad una fiaba, ma, piuttosto, il tocco greve di un accumulo di situazioni forti e di scene madri per sospingere il livello di “zuccheri” alla massima quota. E’ invece da salvare la brillante prima parte, per le buone trovate comiche, le situazioni esilaranti e le consuete gag strampalate del vulcanico comico toscano, che, nel tempo, ha barattato la tagliente irriverenza degli esordi con una più morigerata ruffianeria pseudo culturale. Ma il sensazionalismo sentimentale paga sempre bene ed il mondo ha incoronato Benigni come nuovo genio comico di fine millennio.

Voto:
voto: 3/5

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