Arezzo,
1938: Guido Orefice, ebreo italiano che lavora come cameriere in un hotel,
appassionato di poesia e dai modi giullareschi, s’innamora della maestrina
Dora, già promessa ad un burocrate fascista. Per nulla intimorito riuscirà a
conquistarla con un corteggiamento assillante, fatto di trovate pittoresche, sorprese
veementi, ma non prive di tenerezza. Sei anni dopo Guido e Dora sono
felicemente sposati ed hanno un figlio, il piccolo Giosuè. Ma, quando iniziano
le persecuzioni naziste contro gli ebrei, l’intera famiglia verrà deportata in
un campo di concentramento, persino Dora che, pur non essendo ebrea, ha deciso
di seguire la sorte di marito e figlio di propria volontà. L’intrepido Guido
non si perde d’animo e si fa forza per cercare di salvare il figlio,
preservandogli non solo la vita ma anche l’innocenza di fronte ad un simile
orrore. Riesce così a tenerlo nascosto nelle camerate e gli fa credere che
tutto quello che stanno passando sia, in realtà, un grande gioco di finzione, una
sorta di nascondino generale in cui i soldati si fingono cattivi ed i più deboli
saranno squalificati, rinunciando così al gran premio finale: un carro armato.
Grande successo mondiale di pubblico e critica, ha commosso gli spettatori di
ogni latitudine diventando il fenomeno cinematografico del 1997. Premiato ed
acclamato praticamente ovunque, ha vinto tutto ciò che si poteva vincere: Gran
Premio Speciale della Giuria al Festival di Cannes, BAFTA Awards e tre premi
Oscar: miglior film straniero, Benigni attore protagonista e la struggente
colonna sonora di Nicola Piovani. Ma, come a volte accade nei casi di consenso
plebiscitario, ci troviamo di fronte ad un’opera indubbiamente coraggiosa, per
l’accostamento della più grande tragedia storica del ‘900 al registro della
commedia, ma anche grossolana, astuta, trasognata, quasi irritante per la
manipolazione superficiale della storia, per l’alta retorica sentimentale di
cui abbonda e per l’andamento “elefantiaco” della seconda parte, volta
unicamente ad arrivare al tripudio finale, che è un’esplosione di enfasi
strappalacrime, “scientificamente” progettata su emozioni a buon mercato. L’intero
atto finale dell’opera, che vira decisamente nel favolistico per sospendere
l’incredulità, non possiede la grazia necessaria ad una fiaba, ma, piuttosto,
il tocco greve di un accumulo di situazioni forti e di scene madri per
sospingere il livello di “zuccheri” alla massima quota. E’ invece da salvare la
brillante prima parte, per le buone trovate comiche, le situazioni esilaranti e
le consuete gag strampalate del vulcanico comico toscano, che, nel tempo, ha
barattato la tagliente irriverenza degli esordi con una più morigerata
ruffianeria pseudo culturale. Ma il sensazionalismo sentimentale paga sempre bene
ed il mondo ha incoronato Benigni come nuovo genio comico di fine millennio.
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