domenica 22 febbraio 2015

La stanza del figlio (La stanza del figlio, 2001) di Nanni Moretti

Giovanni, psicanalista di Ancona, paziente e professionale nel suo lavoro, è sposato con Paola, con cui ha due figli adolescenti: Andrea e Irene. La loro vita scorre tranquilla tra alti e bassi, fino a quando Andrea muore tragicamente per un incidente, durante un’immersione subacquea. Distrutti dal dolore ed incapaci di accettarlo, i componenti della famiglia sembrano disgregarsi. Ma, un giorno, arriva una lettera indirizzata ad Andrea da parte di Arianna, una sua coetanea che lo ha conosciuto e se ne è innamorata. Giovanni ed i suoi si adoperano per contattarla, la informano del tragico evento e la convincono a far loro visita. Sarà lei a varcare la soglia “proibita” della stanza di Andrea, la stanza di un figlio morto nella quale nessun genitore riesce più ad entrare, senza essere travolto dai ricordi e dal dolore. Rigoroso dramma familiare di Moretti, straziante nei contenuti ma mai retorico, mai lacrimevole, piuttosto asciutto, denso, teso, asettico nella sua estrema pudicizia morale. Diviso in due parti molto diverse sembra quasi un’emblematica chiosa dell’autore con il suo cinema del passato, l’inizio di un nuovo corso più cupo e doloroso, ma carico delle medesime problematiche esistenziali. Nella prima parte è un film squisitamente morettiano, con le consuete ossessioni del regista di Brunico, tra dissertazioni logorroiche, idiosincrasie, sbalzi d’umore, attività sportive e dialoghi surreali. Dopo la tragedia il film cambia volto e c’immerge in una seconda parte lacerante, amarissima, stravolta, come la famiglia, dal lutto inaccettabile, insostenibile, devastante, perché nessun figlio dovrebbe mai precedere, nella morte, un genitore. In un territorio nuovo per il suo cinema, Moretti dimostra un’ammirevole maturità nell’evitare ogni sorta di enfasi, ogni concessione al melodramma, ogni spettacolarizzazione ruffiana del dolore, preferendo una compostezza solenne, un’antiretorica del tragico che vira nell’astrazione concettuale, ambendo a tratteggiare, con successo, una sorta di apologia teoretica del lutto e della sofferenza, basata su una rigida estetica del pudore, sostituendo la più banale disperazione con un più intimo e desolante annichilimento, per rendere in maniera più totale il senso della perdita. E’ raro trovare un film di egual misura, compostezza, minimalismo e sensibilità su un tema tanto sconvolgente, solitamente ammiccante ad una cinematografia più banale, tendente a crogiolarsi nel sentimentalismo patetico. La grandezza dell’autore risiede nella sua capacità di realizzare quest’opera dolorosa e lancinante, ad occhi asciutti, con rimandi velati al cinema rarefatto e potente di Kieslowski. Esiste un aggettivo appropriato per rendere, sinteticamente, il tono e le atmosfere di questo film: ovvero, in lingua portoghese, la parola saudade, che indica uno stato di solitudine morale, di profonda nostalgia derivata da un ricordo, da un’assenza o da una perdita, una condizione esistenziale così profonda e totalizzante da assumere una connotazione mistica, filosofica, assoluta. Il film, indubbiamente non facile, ha diviso pubblico e critica ed è stato premiato con la Palma d’Oro al Festival del Cinema di Cannes. L’elaborazione di un lutto è, probabilmente, uno dei temi più complessi e delicati che il cinema, e l’arte in genere, possano toccare. Questo film di Moretti, lucido e raffinato, pone un nuovo importante suggello in questa ricerca dolorosa, ergendosi ad inevitabile modello “nobile” per la cinematografia di questo tipo.

Voto:
voto: 4,5/5

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