Giovanni,
psicanalista di Ancona, paziente e professionale nel suo lavoro, è sposato con
Paola, con cui ha due figli adolescenti: Andrea e Irene. La loro vita scorre
tranquilla tra alti e bassi, fino a quando Andrea muore tragicamente per un
incidente, durante un’immersione subacquea. Distrutti dal dolore ed incapaci di
accettarlo, i componenti della famiglia sembrano disgregarsi. Ma, un giorno,
arriva una lettera indirizzata ad Andrea da parte di Arianna, una sua coetanea
che lo ha conosciuto e se ne è innamorata. Giovanni ed i suoi si adoperano per
contattarla, la informano del tragico evento e la convincono a far loro visita.
Sarà lei a varcare la soglia “proibita” della stanza di Andrea, la stanza di un
figlio morto nella quale nessun genitore riesce più ad entrare, senza essere
travolto dai ricordi e dal dolore. Rigoroso dramma familiare di Moretti,
straziante nei contenuti ma mai retorico, mai lacrimevole, piuttosto asciutto,
denso, teso, asettico nella sua estrema pudicizia morale. Diviso in due parti
molto diverse sembra quasi un’emblematica chiosa dell’autore con il suo cinema
del passato, l’inizio di un nuovo corso più cupo e doloroso, ma carico delle
medesime problematiche esistenziali. Nella prima parte è un film squisitamente
morettiano, con le consuete ossessioni del regista di Brunico, tra
dissertazioni logorroiche, idiosincrasie, sbalzi d’umore, attività sportive e
dialoghi surreali. Dopo la tragedia il film cambia volto e c’immerge in una
seconda parte lacerante, amarissima, stravolta, come la famiglia, dal lutto
inaccettabile, insostenibile, devastante, perché nessun figlio dovrebbe mai
precedere, nella morte, un genitore. In un territorio nuovo per il suo cinema,
Moretti dimostra un’ammirevole maturità nell’evitare ogni sorta di enfasi, ogni
concessione al melodramma, ogni spettacolarizzazione ruffiana del dolore,
preferendo una compostezza solenne, un’antiretorica del tragico che vira
nell’astrazione concettuale, ambendo a tratteggiare, con successo, una sorta di
apologia teoretica del lutto e della sofferenza, basata su una rigida estetica
del pudore, sostituendo la più banale disperazione con un più intimo e
desolante annichilimento, per rendere in maniera più totale il senso della
perdita. E’ raro trovare un film di egual misura, compostezza, minimalismo e
sensibilità su un tema tanto sconvolgente, solitamente ammiccante ad una
cinematografia più banale, tendente a crogiolarsi nel sentimentalismo patetico.
La grandezza dell’autore risiede nella sua capacità di realizzare quest’opera
dolorosa e lancinante, ad occhi asciutti, con rimandi velati al cinema
rarefatto e potente di Kieslowski. Esiste un aggettivo appropriato per rendere,
sinteticamente, il tono e le atmosfere di questo film: ovvero, in lingua
portoghese, la parola saudade, che
indica uno stato di solitudine morale, di profonda nostalgia derivata da un
ricordo, da un’assenza o da una perdita, una condizione esistenziale così
profonda e totalizzante da assumere una connotazione mistica, filosofica,
assoluta. Il film, indubbiamente non facile, ha diviso pubblico e critica ed è
stato premiato con la Palma
d’Oro al Festival del Cinema di Cannes. L’elaborazione di un lutto è,
probabilmente, uno dei temi più complessi e delicati che il cinema, e l’arte in
genere, possano toccare. Questo film di Moretti, lucido e raffinato, pone un
nuovo importante suggello in questa ricerca dolorosa, ergendosi ad inevitabile
modello “nobile” per la cinematografia di questo tipo.
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