Nella
torrida estate del 1977 le strade di New York sono bagnate dal sangue delle
vittime del “figlio di Sam”, un serial killer spietato che uccide le coppiette
appartate in auto a colpi di pistola calibro 44, per poi svanire nel nulla. L’imprevedibilità
dell’assassino, che colpisce a caso e con inusitata ferocia, genera un’ondata
di panico senza precedenti tra gli abitanti della metropoli “che non dorme
mai”. In questo clima rovente ed angosciante s’intrecciano le storie al limite
di un microcosmo di sbandati italoamericani del Bronx, tra sesso, droga,
bullismo, turpiloquio e violenza quotidiana. In maggior risalto c’è la storia
di Vinny, spudorato maschilista erotomane con la passione del ballo, che
tradisce la bella moglie con qualunque donna gli capiti a tiro, e quella di Ritchie,
punk disadattato con aspirazioni musicali, che si prostituisce in un locale gay
per sbarcare il lunario. Mentre in città scoppia l’inferno, con una violenta
rivolta urbana durante una notte di blackout, e l’incubo del “figlio di Sam”
esaspera i cittadini, il pregiudizio del quartiere fa cadere i sospetti sul
pittoresco Ritchie, che, a causa dei suoi comportamenti “deviati”, viene
accusato dai suoi stessi amici di essere il killer che terrorizza New York.
Crudo affresco sociale e di costume, ispirato alle gesta nefande del serial
killer, realmente esistito, che terrorizzò la “grande mela” tra il 1976 e il
1977, raccontato con vigorosa tensione drammatica e verace enfasi narrativa da
Spike Lee, che ci immerge, con cupo realismo, in un sordido sottobosco urbano
di degrado morale, in cui vizio e violenza sono le uniche forme di espressione
quotidiana. Lasciando, efficacemente, l’ombra del killer sullo sfondo, il
sanguigno autore afroamericano accantona, momentaneamente, le storie sulla
comunità nera per un cast di tutti bianchi, tratteggiando un ritratto cinico e
spietato, un po’ troppo insistito, non privo di stereotipi e di cadute scurrili,
della comunità italiana del Bronx, che, ovviamente, non ha gradito, accusando
il regista di rappresentazione offensiva e monocorde, senza possibilità di
appello. Ma, per chi sa andare oltre le apparenze e la patina oltraggiosa di un
film “sporco” e volutamente sgradevole, è evidente che Lee ci parla, ancora una
volta ed in maniera egregia quanto scomoda, di intolleranza verso i “diversi”
e, quindi, di integrazione e di pregiudizio che, come al solito, prolifera in
ambienti degradati vessati dall’ignoranza. In quest’opera eccessiva, diseguale,
sospesa tra la denuncia sociale ed il delirio urbano, ciò che funziona in
maniera eccellente è la realistica ricostruzione ambientale, perfetta anche nel
ruvido slang, apprezzabile guardando
il film in lingua originale, intesa a denunciare, come sempre, l’assoluta ingiustizia
dei preconcetti sommari nei confronti di chi ci appare dissimile, non conforme
e non omologato, nell’aspetto o nei comportamenti. Piaccia o meno la lucidità
dell’autore, spesso urlata e ripugnante nella forma stilistica, è tagliente e
mette a nudo scomode verità, a patto di saper leggere oltre l’esteriorità e,
per l’appunto, senza pregiudizi. Le scene più riuscite sono gli inserti
onirici, fotografati con un’estetica da incubo, delle visioni aberranti del
“figlio di Sam”: una rappresentazione, filtrata attraverso la sua mente
disturbata, del fantomatico “cane infernale” che lo avrebbe spinto all’omicidio,
secondo le sue deliranti confessioni fornite alla polizia dopo l’arresto.
Splendida la colonna sonora, magistralmente calibrata sulle hits dell’epoca per incorniciare,
degnamente, i momenti topici ed ottimo tutto il cast al completo, in cui
svettano Mira Sorvino, mai così sexy, John Leguizamo ed un irriconoscibile Adrien
Brody. Duro, teso ed intenso, è un film imperdibile per i fans del regista. Il pubblico mainstream stia pure
alla larga.
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