domenica 22 febbraio 2015

Summer of Sam - Panico a New York (Summer of Sam, 1999) di Spike Lee

Nella torrida estate del 1977 le strade di New York sono bagnate dal sangue delle vittime del “figlio di Sam”, un serial killer spietato che uccide le coppiette appartate in auto a colpi di pistola calibro 44, per poi svanire nel nulla. L’imprevedibilità dell’assassino, che colpisce a caso e con inusitata ferocia, genera un’ondata di panico senza precedenti tra gli abitanti della metropoli “che non dorme mai”. In questo clima rovente ed angosciante s’intrecciano le storie al limite di un microcosmo di sbandati italoamericani del Bronx, tra sesso, droga, bullismo, turpiloquio e violenza quotidiana. In maggior risalto c’è la storia di Vinny, spudorato maschilista erotomane con la passione del ballo, che tradisce la bella moglie con qualunque donna gli capiti a tiro, e quella di Ritchie, punk disadattato con aspirazioni musicali, che si prostituisce in un locale gay per sbarcare il lunario. Mentre in città scoppia l’inferno, con una violenta rivolta urbana durante una notte di blackout, e l’incubo del “figlio di Sam” esaspera i cittadini, il pregiudizio del quartiere fa cadere i sospetti sul pittoresco Ritchie, che, a causa dei suoi comportamenti “deviati”, viene accusato dai suoi stessi amici di essere il killer che terrorizza New York. Crudo affresco sociale e di costume, ispirato alle gesta nefande del serial killer, realmente esistito, che terrorizzò la “grande mela” tra il 1976 e il 1977, raccontato con vigorosa tensione drammatica e verace enfasi narrativa da Spike Lee, che ci immerge, con cupo realismo, in un sordido sottobosco urbano di degrado morale, in cui vizio e violenza sono le uniche forme di espressione quotidiana. Lasciando, efficacemente, l’ombra del killer sullo sfondo, il sanguigno autore afroamericano accantona, momentaneamente, le storie sulla comunità nera per un cast di tutti bianchi, tratteggiando un ritratto cinico e spietato, un po’ troppo insistito, non privo di stereotipi e di cadute scurrili, della comunità italiana del Bronx, che, ovviamente, non ha gradito, accusando il regista di rappresentazione offensiva e monocorde, senza possibilità di appello. Ma, per chi sa andare oltre le apparenze e la patina oltraggiosa di un film “sporco” e volutamente sgradevole, è evidente che Lee ci parla, ancora una volta ed in maniera egregia quanto scomoda, di intolleranza verso i “diversi” e, quindi, di integrazione e di pregiudizio che, come al solito, prolifera in ambienti degradati vessati dall’ignoranza. In quest’opera eccessiva, diseguale, sospesa tra la denuncia sociale ed il delirio urbano, ciò che funziona in maniera eccellente è la realistica ricostruzione ambientale, perfetta anche nel ruvido slang, apprezzabile guardando il film in lingua originale, intesa a denunciare, come sempre, l’assoluta ingiustizia dei preconcetti sommari nei confronti di chi ci appare dissimile, non conforme e non omologato, nell’aspetto o nei comportamenti. Piaccia o meno la lucidità dell’autore, spesso urlata e ripugnante nella forma stilistica, è tagliente e mette a nudo scomode verità, a patto di saper leggere oltre l’esteriorità e, per l’appunto, senza pregiudizi. Le scene più riuscite sono gli inserti onirici, fotografati con un’estetica da incubo, delle visioni aberranti del “figlio di Sam”: una rappresentazione, filtrata attraverso la sua mente disturbata, del fantomatico “cane infernale” che lo avrebbe spinto all’omicidio, secondo le sue deliranti confessioni fornite alla polizia dopo l’arresto. Splendida la colonna sonora, magistralmente calibrata sulle hits dell’epoca per incorniciare, degnamente, i momenti topici ed ottimo tutto il cast al completo, in cui svettano Mira Sorvino, mai così sexy, John Leguizamo ed un irriconoscibile Adrien Brody. Duro, teso ed intenso, è un film imperdibile per i fans del regista. Il pubblico mainstream stia pure alla larga.

Voto:
voto: 4/5

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