Justine
e Claire sono due sorelle, molto diverse ma profondamente legate, che
condividono due genitori raffinati, rigidi e distanti nella loro impassibile freddezza.
Nel giorno delle sue nozze, Justine, che sorride sempre ma prova un evidente
disagio interiore, si comporta in modo strano, allontanandosi spesso dal
ricevimento nuziale e finendo addirittura per tradire il marito con uno
sconosciuto. Su tutto aleggia l’ombra sinistra di una catastrofe incombente: un
pianeta chiamato Melancholia in rotta di collisione con la terra, che potrebbe
provocare l’estinzione del genere umano. Potente dramma apocalittico di Lars
Von Trier, costituito da uno splendido prologo astratto, di suggestione
pittorica, accompagnato dalle sublimi note wagneriane del “Tristano e Isotta”, e due capitoli, dedicati alle due sorelle
protagoniste, egregiamente interpretate da Kirsten Dunst e Charlotte Gainsbourg,
musa del regista danese. Justine e Claire sono figure emblematiche, facce opposte
di una stessa medaglia: la prima è solare, istintiva, carnale e anticonvenzionale,
sebbene rechi dentro un malcelato tormento che ha radici profonde,
probabilmente riconducibili ad una figura materna spigolosa e scostante. La
seconda è, invece, razionale, rigorosa, maniacale nella sua ossessione di
controllo e tende a soffocare Justine con la sua etica raziocinante di matrice
protettiva. Entrambe sono aspetti simbolici della complessa e multiforme
personalità del regista, che s’identifica in entrambe, immergendole in un clima
cupo ed angosciante da fine dei giorni. Con lo schematismo geometrico di un kammerspiel
surreale, infinitamente tragico nella sua ineluttabilità, ed evidente fin dalle
prime immagini del film, l’autore raggiunge l’apice supremo del suo pessimismo,
estendendolo ad una portata cosmica, definitiva e chiudendo, in questo modo, un
capitolo della sua cinematografia. Quest’opera viscerale, espressionista,
impregnata di suggestioni esistenzialiste e di umori corrosivi antiborghesi,
rappresenta, in tal senso, una summa estetica, un punto di non ritorno, un
approdo concettuale del cinema di Lars von Trier. Tra evidenti omaggi a Tarkovskij
(a cui il film è dedicato) e splendide citazioni visive del mito di Ofelia
(Justine trasportata dalle acque del fiume), il regista ci conduce al
terrificante finale ipnotico, che obbedisce, con estasi funerea, al proprio
credo misantropo: la fine del mondo è inevitabile quanto “giusta”, perché
l’umanità è così turpe da meritare l’estinzione, come si è cercato di “dimostrare”
nella prima parte (la festa fasulla e decadente). Si può, ovviamente,
dissentire da una visione così drastica e catastrofica, ma è impossibile negare
il fascino oscuro di un’opera tanto sinistra quanto ammaliante, che intende replicare,
magistralmente, l’influsso malefico e stordente del pianeta che dà il titolo al
film. La Dunst
ha ricevuto il premio alla migliore interpretazione femminile al Festival del
Cinema di Cannes per questa sua intensa partecipazione, dimostrando, ancora una
volta, il grande talento del regista nella scelta e nella direzione degli
attori. Un film di Lars von Trier non è mai banale ed è, a suo modo, sempre un
evento, nel bene o nel male. In questo caso finiremo travolti da una struggente
melanconia, una palude morale dalle esalazioni mefitiche, che, con uno
stupefacente ossimoro filosofico, si rallegra nella tristezza di riconoscere il
ruolo supremo della Natura, giudice imperturbabile ed equanime del nostro
irrevocabile destino.
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