Biografia grottesca, e
carica di tenerezza, di Edward D. Wood Jr., definito da molti critici del suo
tempo “il peggior regista di tutti i tempi”. Wood, stralunato, vivace,
pittoresco, frettoloso, incapace di relazionarsi al prossimo in maniera
tradizionale, pieno di fisime e di manie (come quella di indossare abiti
femminili), ha attraversato la
Hollywood anni ’50 alla sua maniera: con estro confusionario
e toccante ingenuità, realizzando, con chiassoso entusiasmo, una serie di
b-movies a basso costo dal disastroso esito commerciale. Nel film, che
approfondisce l’ambigua personalità del protagonista attraverso inserti
surreali di mirabile carica fantastica, ci si sofferma su due episodi cruciali
della vita del maldestro regista: l’incontro con l’ungherese Bela Lugosi,
vecchia star del cinema horror delle origini, ormai caduto nel dimenticatoio ed
afflitto da miseria e malattie, e quello con il leggendario Orson Welles, indiscusso
padre del cinema moderno. Lugosi sarà protagonista dei primi film del regista,
che allaccerà con lui una strana ma sincera amicizia e che lo assisterà fino
alla morte, senza mai abbandonarlo. Da Welles, invece, Wood saprà trarre
l’ispirazione per il suo film più famoso e meno scalcinato: l’horror
fantascientifico Plan 9 from Outer Space,
divenuto, negli anni, oggetto di culto per gli appassionati del trash vintage.
Il visionario Tim Burton sceglie il goffo, ma creativo, Ed Wood, icona negativa
di un cinema “basso” ed approssimativo, per tracciare un vibrante omaggio della
sua professione, attraverso una sincera elegia sopra le righe del cinema del
passato, raccontata con struggente nostalgia. Con una splendida fotografia in
bianco e nero che restituisce l’aria dei tempi, l’autore tesse un nuovo elogio
della diversità, attraverso l’ennesimo personaggio alienato, incompreso,
inadatto, ancora una volta interpretato dal fido trasformista Johnny Depp, e caricandolo
di un’energia strampalata, di un’aura spudorata, spesso dissennata ma non priva
di genialità, che vira nella sublimazione mitica. L’affetto “mimetico” di Burton
per Wood è evidente fin dalle prime immagini, al punto da trasferirgli alcune delle
sue ossessioni personali, come l’attitudine di giocare con i generi
cinematografici per stravolgerne i codici o la ricerca di nuove forme
espressive attraverso l’iperbole stilistica, obbediente al furore istintivo più
che al raziocinio narrativo. Il transfert emotivo tra i due registi raggiunge
l’apice della genialità espressiva nel momento in cui Wood, e quindi Burton,
identifica allegoricamente i suoi improbabili mostri cinematografici, sempre
sul filo del ridicolo involontario, con le figure saccenti e conformiste (i
critici, i produttori ed i guru dell’industria hollywoodiana) che tarpano le
sue piccole ali di artista emarginato. Sincero e toccante, accorato e
malinconico, eccessivo ed irresistibile, Ed
Wood è il miglior film del regista californiano, in cui svetta un intenso
Martin Landau, premiato con l’Oscar come non protagonista, che ci offre
un’interpretazione memorabile nel ruolo del vecchio Lugosi, emblema dolente
della gloria effimera del successo e delle feroci leggi dello star system, pronte a portarti dalle
stelle alla polvere in un battito di ciglia. Chi ha accusato Burton di aver
fornito un ritratto di parte, indulgente e carico di ammirazione di Wood non
dice una menzogna; ma i meriti e gli obiettivi del film non risiedono nel
realismo, ma nell’elogio surreale di un’idea di cinema magica, libera, allegra,
sregolata, evidentemente ingigantita dalla prospettiva appassionata di un
cinefilo di razza, che si approccia ai propri obiettivi artistici con l’emotività
entusiastica di un eterno fanciullo, sospeso tra genio e sogno. E la totale
sovrapposizione tra Burton e il suo idolo è la cifra stilistica autentica
dell’opera, la sola in cui può essere letta: una biografia antirealistica che
ci mostra il mondo in soggettiva, attraverso lo sguardo trasognato di Ed Wood.
E di Tim Burton.
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