sabato 14 febbraio 2015

M*A*S*H (M*A*S*H, 1970) di Robert Altman

Nelle retrovie della guerra di Corea, in un ospedale da campo americano, tre ufficiali chirurghi, burloni ed insofferenti alle regole militari, creano un loro personale angolo di evasione goliardica, fatto di burle irriverenti e scherzi atroci nei confronti dei colleghi, delle belle infermiere e senza risparmiare neppure i superiori. Nonostante le frequenti ramanzine e punizioni, i tre giocherelloni non cambieranno mai e toccheranno l’apice derisorio durante un torneo di football americano organizzato da un generale: per vincere la partita decisiva inietteranno tranquillanti agli avversari. Capolavoro di geniale irriverenza dissacratoria, irresistibile, mordace, spudorato, sboccato, stralunato. Distrugge, con la sua corrosiva derisione, la retorica dell’eroismo patriottico ed il dogmatismo fanatico del militarismo, cambiando per sempre il modo hollywoodiano di raccontare la guerra, come una sorta di “peccato originale” della satira militare. Dal vulcanico magma di personaggi fuori di testa e situazioni irriverenti, emerge l’ironia tagliente e beffarda del regista, che, come un uragano iconoclasta, trascina tutto con sé nella sua corrente demistificatrice, senza risparmiare nemmeno i miti istituzionali quali religione, moralismo e persino il football americano, lo sport nazionale. Diede il successo mondiale al “diabolico” contestatore Robert Altman, che qui, forte dell’energia degli “esordienti”, ha raggiunto l’apice della sua vena dissacratoria. Sebbene il film sia ambientato in Corea, sembrò a tutti evidente, che l’autore intendesse parlare del Vietnam, senza però mai nominarlo, sia per esorcizzarne, a livello inconscio e con assoluto coraggio, l’impatto angosciante che aveva sull’opinione pubblica del tempo, sia per attuare il suo lucido progetto di caustica denuncia attraverso il linguaggio pungente della farsa. Malgrado le pressioni produttive il grande regista non rinunciò a nessuna delle sue provocazioni, dal linguaggio scurrile alle scene cruente in sala operatoria, dalle battute politicamente scorrette (quelle sessiste sono celeberrime) fino alla parodia dell’ultima cena, che fece arrabbiare i cattolici. Ma i meriti dell’opera risiedono anche negli alti valori tecnici e nella sua assoluta originalità stilistica: la sintassi è libera, anarchica, debordante, le sperimentazioni sono numerose, come la sovrapposizione dei dialoghi e dei punti di vista, che poi troveranno magnifico compimento artistico nel famoso Altman “corale” degli anni migliori. Lo sberleffo supremo è già nella canzone che apre il film sui titoli di testa, composta dal figlio quattordicenne del regista ed inneggiante al suicidio. Sotto la patina demenziale e grossolana, sulla quale si soffermeranno i meno attenti, si nasconde uno dei più potenti ed anticonvenzionali attacchi al militarismo mai compiuti dal cinema americano. Nell’ambito delle satire contro la guerra è superato solo dal Dottor Stranamore di Kubrick e da Vogliamo vivere! di Lubitsch. Del grande cast citiamo Sally Kellerman, Donald Sutherland, Elliott Gould, Robert Duvall, Tom Skerritt, tutti bravissimi. Il film ebbe un grande successo di pubblico, vinse la Palma d’Oro al Festival del Cinema di Cannes e l’Oscar alla migliore sceneggiatura. Ne fu tratta una fortunata e celebre serie televisiva omonima, andata in onda, per 11 stagioni e 251 episodi, dal 1972 al 1983. Il titolo è l’acronimo di “Mobile Army Surgical Hospital”.

Voto:
voto: 4,5/5

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