Edward
Bloom è un commesso viaggiatore, innamorato della vita e di sua moglie Sandra,
dotato di una vivace fantasia e di una straordinaria capacità di raccontare
storie, incredibili avventure fantastiche che hanno costellato la sua lunga esistenza,
rendendola straordinaria. Ormai anziano e malato, fa fatica lui stesso a
distinguere le parti reali da quelle immaginate, o “abbellite”, di quel lungo
racconto che è ormai la sua vita. Il solo che resiste alle sue capacità di
incantatore e che non crede alle tante mirabolanti storie, fatte da lupi
mannari, streghe che leggono il futuro in un occhio di vetro, giganti tristi e
buoni, gemelle siamesi coreane ed un grosso pesce di fiume impossibile da
catturare, è suo figlio Edward, che ha sempre avuto un rapporto conflittuale
con l’estroso genitore. Ma, in occasione della malattia del padre, Edward
inizia a scavare nel suo passato, per capire quanto e cosa ci fosse di vero
dietro le sue meravigliose storie. Ciò che scoprirà cambierà la sua vita per
sempre. Delicata fiaba sentimentale, con retrogusto amaro, di Tim Burton che,
nel celebrare il potere assoluto della fantasia come possente anelito vitale da
opporre al tedio del banale quotidiano, ne fissa le coordinate emotive nel
difficile rapporto tra un padre e un figlio, che costituisce il cuore intimo
dell’opera. La ricerca di Edward, giovane ed incredulo, è un viaggio dell’anima,
per scoprire le proprie radici e recuperare la magia dell’infanzia, il solo
modo per poter “volare” nei mondi incantati dei racconti paterni. Strutturato
su due piani narrativi, il vecchio Edward Bloom che narra storie ed il giovane
Edward Bloom che, mentre le “vive”, ce le mostra sullo schermo, Big fish è anche un itinerario
malinconico in quell’America rurale, ingenua e meravigliosa, che appartiene
alla memoria delle passate generazioni e che, come tale, si riserva il dono di
edulcorare il passato, per renderlo migliore. Questo processo emozionale,
tipico dell’uomo, è quello che Burton sceglie, insieme al suo protagonista,
come unica “verità”, perché in questo risiede la magia degli spiriti puri e
creativi, che cercano l’arte in ogni singolo gesto. Pescando a piene mani dal
suo esuberante immaginario fantasy, tra suggestioni gotiche e tocchi di intensa
carica visionaria, tra il suo innato senso dell’orrido e l’anelito al
meraviglioso, questo rarefatto idillio di formazione punta al cuore dello
spettatore, sospeso sul filo sottile tra realtà e immaginazione. Ma se, da un
lato, funziona egregiamente nel sancire la necessità della fiaba rispetto al
doloroso vivere umano, dall’altro cade rovinosamente in un finale patetico, che
sprizza retorica sentimentale oltre ogni limite tollerabile, nella sua ricerca
della lacrima facile. Tra alti e bassi, poesia e ridondanze, il film è un
grande circo delle meraviglie non sempre equilibrato, ma notevole per l’estro
visivo che non è mai stato un problema per l’autore. Nel grande cast, composto
da Ewan McGregor, Jessica Lange, Marion Cotillard, Billy Crudup, Helena Bonham
Carter, il più convincente è Albert Finney nei panni del vecchio Bloom.
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