lunedì 2 febbraio 2015

Zabriskie Point (Zabriskie Point, 1970) di Michelangelo Antonioni

Mark, giovane studente ribelle, è ricercato dalla polizia di Los Angeles per la morte di un agente, avvenuta durante gli scontri scoppiati al seguito di una rivolta studentesca in un campus. Braccato, ruba un piccolo aereo e fugge a Zabriskie Point, in pieno deserto californiano. Qui incontra Daria, giovane segretaria in viaggio verso Phoenix per una vacanza. I due si amano appassionatamente nel panorama desolato della  Death Valley, prima di separarsi. Mark, pentito delle sue azioni, si dichiara innocente dell’omicidio del poliziotto e torna indietro per riconsegnare l’aereo rubato, ma il finale sarà tragico. Lo Zabriskie Point è il punto di massima depressione geologica degli Stati Uniti, situato nella desertica “Valle della Morte” californiana. Un luogo ostile, lunare, inseminato, dove non può crescere la vita, che Antonioni ha scelto, emblematicamente, come affascinante ambientazione del suo primo film “americano”. Realizzato con un alto budget, con attori non professionisti ed una lunga e travagliata lavorazione, il film, indubbiamente pretenzioso, fu un flop assoluto al botteghino, venne distrutto dalla critica americana e lasciò perplessa quella italiana, trovando ben pochi estimatori. Il tempo gli ha garantito lo status di cult movie, concedendogli la meritata rivalutazione artistica. Ambizioso e provocatorio, Zabriskie Point è un’opera potente e psichedelica, che intende condensare, in meno di due ore, le utopie delle rivolte giovanili degli anni ’60 e gli ideali della controcultura: le contestazioni studentesche, gli scontri con la polizia, la fuga come idea mitica di rinuncia alle regole della società reazionaria, l’amore libero come atto supremo, e politico, di affermazione della propria indipendenza, i vagheggiamenti della rivoluzione pacifista ed il sogno di abbattimento delle barriere sociali. Probabilmente troppo per un film solo e per un regista come Antonioni, storicamente più a suo agio con tematiche inerenti alla crisi esistenziale, all’incomunicabilità tra esseri umani con relativo coinvolgimento dei rapporti sentimentali di coppia. Ma Zabriskie Point è anche un film sul vuoto, sulla sconfitta del modello capitalistico, sul fallimento delle repressioni civili di fronte al crescente disagio giovanile, tematiche politiche scottanti, affrontate però in maniera frettolosa, e con un farraginoso dogmatismo ideologico di base, dal regista ferrarese, che qui tende a smarrire la rotta creando una divergenza tra il sostrato psicologico e l’ingombrante sovrastruttura intellettuale. Chi ci ha voluto vedere un film sull’America non ne ha colto il senso reale, peccando della medesima superficialità contestata all’autore. Zabriskie Point è, ancora una volta, un film sulla crisi, applicata però ad un contesto sociale, politico e filosofico ben più vasto, di cui la desolata ambientazione desertica rappresenta il contraltare beffardo, oltre che il simbolo pregnante di una ricerca di purezza assoluta. Ma, al di là delle ellissi concettuali, questa surreale “favola” astratta, che vira nell’apocalittico nello stupefacente finale, possiede i suoi punti di forza nei memorabili momenti onirici, che ne riscattano la dignità formale, se non la piena legittimità teorica. Tra le scene di volo alto, che hanno reso il film indimenticabile, vanno sicuramente citate quella, eversiva, dell’amore di gruppo consumato nella desolazione del deserto, con lo sguardo registico metaforicamente “distante”, e l’epilogo anarchico, con la mega villa che esplode in mille pezzi, la visione della sconsolata Daria che immagina la distruzione di quei modelli consumistici responsabili del tragico destino di Mark. La sequenza dell’esplosione, ripetuta fino allo sfinimento, e filmata da ben 17 macchine da presa in simultanea, sulle splendide note dei Pink Floyd, è entrata nella storia del cinema e vale, già da sola, come si suol dire, il prezzo del biglietto. Quest’opera dissonante, irrisolta, magniloquente e disomogenea, è uno dei manifesti di quel cinema, poetico e “maledetto”, che oggi sarebbe impossibile anche solo da immaginare. Una menzione speciale per la colonna sonora altisonante, che annovera tra i suoi crediti i Pink Floyd, i Kaleidoscope , i Grateful Dead , Jerry Garcia e John Fahey. Antonioni scartò alcuni temi appositamente composti dai Pink Floyd per il film, uno dei quali sarà poi usato dalla celebre band inglese per il leggendario brano “Us and them” dell’album “The dark side of the moon”.

Voto:
voto: 4/5

Nessun commento:

Posta un commento