mercoledì 18 febbraio 2015

American History X (American History X, 1998) di Tony Kaye

Il giovane Danny è cresciuto all’ombra di suo fratello maggiore, Derek, verso cui nutre un’adorazione smisurata, al limite del fanatismo. Derek è un violento skinhead, leader di un sedicente gruppo di scapestrati neonazisti, che professa la superiorità della razza bianca, legge il “Mein Kampf” ed ha una svastica tatuata sul cuore. Per l’omicidio di due ragazzi di colore, colpevoli del tentativo di furto della sua auto, Derek si trova in carcere, tra gente dura quanto lui, ma, proprio in questo luogo brutale, l’uomo inizia a maturare un cambiamento, che, una volta uscito, lo porterà a rinnegare le sue idee xenofobe. Ma Danny, ormai inevitabilmente contaminato dai germi della violenza e dell’odio, non riuscirà a tirarsi fuori dalla spirale di follia innescata dalle passate azioni del fratello maggiore. Scioccante apologo sul razzismo, sul male che si annida nell’ignoranza di certi strati della popolazione della provincia americana, cresciuti senza ideali e con scarsità di prospettive, diventando facili vittime di ideologie sediziose che, come l’erba cattiva, non muoiono mai, continuando a covare sotto la cenere del degrado sociale. Alternando il colore, per raccontare il presente di Danny, al bianco e nero, per mostrare le nefande “imprese” passate di Derek, il regista adotta uno stile crudo, una messa in scena brutale, con almeno un paio di sequenze di inusitata violenza grafica. L’ottusità delle ideologie a sfondo razzista ci viene mostrata in tutta la sua assurdità ed il suo orrore, attraverso la figura del diabolico Derek, pericoloso, carismatico, addirittura affascinante nel suo agghiacciante lato oscuro, ma la cui monolitica fede in un credo aberrante è l’emblema del sonno della ragione che genera mostri. I limiti dell’autore, pubblicitario prestato al cinema, emergono nella sua incapacità di scavare nel profondo della questione, limitandosi alla patina superficiale, comunque notevole per resa stilistica ed espressività formale. Il finale, inevitabile e retorico, appare troppo effettistico, sia per la repentina “conversione” di Derek che per la strumentale ricerca del tragico, che mira all’enfasi drammatica, lasciando però celate le radici dell’odio, i semi di quel male che parte da lontano e si annida in ambienti “compiacenti”. Memorabile l’interpretazione di Edward Norton nel ruolo di Derek, probabilmente la performance più alta della sua notevole carriera. Candidato all’Oscar come attore protagonista si è visto scippare, incredibilmente, l’ambita statuetta dal Benigni de La vita è bella.

Voto:
voto: 3,5/5

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