Il
giovane Danny è cresciuto all’ombra di suo fratello maggiore, Derek, verso cui
nutre un’adorazione smisurata, al limite del fanatismo. Derek è un violento skinhead, leader di un sedicente gruppo
di scapestrati neonazisti, che professa la superiorità della razza bianca,
legge il “Mein Kampf” ed ha una
svastica tatuata sul cuore. Per l’omicidio di due ragazzi di colore, colpevoli
del tentativo di furto della sua auto, Derek si trova in carcere, tra gente
dura quanto lui, ma, proprio in questo luogo brutale, l’uomo inizia a maturare
un cambiamento, che, una volta uscito, lo porterà a rinnegare le sue idee
xenofobe. Ma Danny, ormai inevitabilmente contaminato dai germi della violenza
e dell’odio, non riuscirà a tirarsi fuori dalla spirale di follia innescata
dalle passate azioni del fratello maggiore. Scioccante apologo sul razzismo,
sul male che si annida nell’ignoranza di certi strati della popolazione della
provincia americana, cresciuti senza ideali e con scarsità di prospettive,
diventando facili vittime di ideologie sediziose che, come l’erba cattiva, non
muoiono mai, continuando a covare sotto la cenere del degrado sociale.
Alternando il colore, per raccontare il presente di Danny, al bianco e nero,
per mostrare le nefande “imprese” passate di Derek, il regista adotta uno stile
crudo, una messa in scena brutale, con almeno un paio di sequenze di inusitata
violenza grafica. L’ottusità delle ideologie a sfondo razzista ci viene mostrata
in tutta la sua assurdità ed il suo orrore, attraverso la figura del diabolico
Derek, pericoloso, carismatico, addirittura affascinante nel suo agghiacciante
lato oscuro, ma la cui monolitica fede in un credo aberrante è l’emblema del
sonno della ragione che genera mostri. I limiti dell’autore, pubblicitario
prestato al cinema, emergono nella sua incapacità di scavare nel profondo della
questione, limitandosi alla patina superficiale, comunque notevole per resa
stilistica ed espressività formale. Il finale, inevitabile e retorico, appare
troppo effettistico, sia per la repentina “conversione” di Derek che per la
strumentale ricerca del tragico, che mira all’enfasi drammatica, lasciando però
celate le radici dell’odio, i semi di quel male che parte da lontano e si annida
in ambienti “compiacenti”. Memorabile l’interpretazione di Edward Norton nel
ruolo di Derek, probabilmente la performance più alta della sua notevole
carriera. Candidato all’Oscar come attore protagonista si è visto scippare,
incredibilmente, l’ambita statuetta dal Benigni de La
vita è bella.
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