martedì 3 febbraio 2015

Città dolente (Beiquing chengshi, 1989) di Hou Hsiao-Hsien

Nel 1945, dopo la sconfitta del Giappone, l’isola di Taiwan ritorna alla Cina, con le forze nazionaliste che mettono fine all’occupazione nipponica, soffocando nel sangue gli antichi rancori. Le vicende di una famiglia composta da padre, madre e quattro figli, diventano lo specchio della drammatica situazione di caos sociale, soprusi e violenze a danno del paese. Il primo figlio viene ucciso dalla mala di Shangai per questioni di droga, il secondo è disperso in guerra nell’oceano Pacifico, il terzo viene incarcerato e torturato, l’ultimo, sordomuto, diventa fotografo e scompare durante la repressione politica. Alla fine resta solo la vecchia madre, come testimone remota della distruzione della famiglia, spazzata via dai venti di guerra e dalla follia umana. Capolavoro antispettacolare in forma di tragica epopea familiare, corale, solenne, procede per sottrazione nel suo sontuoso minimalismo formale. L’autore fa un uso massiccio del piano sequenza, limitando gli stacchi di montaggio ed i primi piani, in favore di una camera fissa che ci offre una prospettiva “teatrale” degli eventi, mostrandoceli senza alcuna retorica, senza enfasi, senza pietismi né moralismi di facciata. Stilisticamente ostico, elitario e per nulla facile nella visione, anche a causa di una trama complessa, ricca di personaggi e di sottotrame parallele, ripaga totalmente lo spettatore per le sue immagini preziose, affascinanti, perfette nella rappresentazione, pudica e nostalgica, dello scorrere inesorabile del tempo, che tramuta e travolge le umane sorti con destini spesso al di là della nostra portata. La messa in scena “dolente”, come espresso dal titolo, rinuncia alle mitizzazioni e agli abbellimenti tipici di molto cinema orientale, dove l’abituale ricchezza visiva e l’esuberanza formale lasciano il posto ad una sacrale compostezza dei toni, di alto spessore storico per l’accuratezza della ricostruzione, che spazia dal pubblico al privato, dalla vicende familiari a quelle politiche, dal lirico all’oggettivo, con rigorosa introspezione analitica, ma affidandosi ad un registro pienamente artistico, che denota la forte personalità dell’autore. Singolare, in tal senso, la scelta di lasciare tutte le grandi notizie di portata storica o politica fuori campo, decentrandole e mescolandole ai dialoghi sulle faccende quotidiane, alla colonna sonora e, persino, ai rumori di sottofondo. Quest’opera estremamente importante, visivamente ispirata al teatro kabuki, è abilissima nell’evitare sia il melodramma che il documento ed ha il suo elemento cardine nella figura del fotografo sordomuto, il cui più intimo desiderio è quello di fermare il tempo, cristallizzarlo nell’arte, per preservarne la memoria, in un gioco di dissolvenze. Fu premiato con il Leone d’Oro al Festival del Cinema di Venezia ma è arrivato, colpevolmente, nel nostro paese solo cinque anni dopo e con un doppiaggio pessimo, che non rende giustizia al suo alto valore. Da vedere, rigorosamente, in lingua originale con sottotitoli.

Voto:
voto: 5/5

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