Nel 1945, dopo la sconfitta del Giappone,
l’isola di Taiwan ritorna alla Cina, con le forze nazionaliste che mettono fine
all’occupazione nipponica, soffocando nel sangue gli antichi rancori. Le vicende
di una famiglia composta da padre, madre e quattro figli, diventano lo specchio
della drammatica situazione di caos sociale, soprusi e violenze a danno del
paese. Il primo figlio viene ucciso dalla mala di Shangai per questioni di
droga, il secondo è disperso in guerra nell’oceano Pacifico, il terzo viene
incarcerato e torturato, l’ultimo, sordomuto, diventa fotografo e scompare
durante la repressione politica. Alla fine resta solo la vecchia madre, come
testimone remota della distruzione della famiglia, spazzata via dai venti di
guerra e dalla follia umana. Capolavoro antispettacolare in forma di tragica epopea
familiare, corale, solenne, procede per sottrazione nel suo sontuoso
minimalismo formale. L’autore fa un uso massiccio del piano sequenza, limitando
gli stacchi di montaggio ed i primi piani, in favore di una camera fissa che ci
offre una prospettiva “teatrale” degli eventi, mostrandoceli senza alcuna
retorica, senza enfasi, senza pietismi né moralismi di facciata.
Stilisticamente ostico, elitario e per nulla facile nella visione, anche a
causa di una trama complessa, ricca di personaggi e di sottotrame parallele,
ripaga totalmente lo spettatore per le sue immagini preziose, affascinanti,
perfette nella rappresentazione, pudica e nostalgica, dello scorrere
inesorabile del tempo, che tramuta e travolge le umane sorti con destini spesso
al di là della nostra portata. La messa in scena “dolente”, come espresso dal
titolo, rinuncia alle mitizzazioni e agli abbellimenti tipici di molto cinema
orientale, dove l’abituale ricchezza visiva e l’esuberanza formale lasciano il
posto ad una sacrale compostezza dei toni, di alto spessore storico per
l’accuratezza della ricostruzione, che spazia dal pubblico al privato, dalla
vicende familiari a quelle politiche, dal lirico all’oggettivo, con rigorosa
introspezione analitica, ma affidandosi ad un registro pienamente artistico,
che denota la forte personalità dell’autore. Singolare, in tal senso, la scelta
di lasciare tutte le grandi notizie di portata storica o politica fuori campo,
decentrandole e mescolandole ai dialoghi sulle faccende quotidiane, alla
colonna sonora e, persino, ai rumori di sottofondo. Quest’opera estremamente
importante, visivamente ispirata al teatro kabuki, è abilissima nell’evitare
sia il melodramma che il documento ed ha il suo elemento cardine nella figura
del fotografo sordomuto, il cui più intimo desiderio è quello di fermare il
tempo, cristallizzarlo nell’arte, per preservarne la memoria, in un gioco di
dissolvenze. Fu premiato con il Leone d’Oro al Festival del Cinema di Venezia
ma è arrivato, colpevolmente, nel nostro paese solo cinque anni dopo e con un
doppiaggio pessimo, che non rende giustizia al suo alto valore. Da vedere,
rigorosamente, in lingua originale con sottotitoli.
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