giovedì 26 febbraio 2015

Todo modo (Todo modo, 1976) di Elio Petri

In un’atmosfera da apocalisse urbana, con il paese allo sbando sotto gli effetti di una grave epidemia, alcuni alti esponenti del partito che detiene il potere da decenni, guidati dal Presidente M, si riuniscono in una sorta di lugubre albergo convento, diretto dal gesuita don Gaetano, per un ritiro spirituale comunitario, che porti ad una proficua riflessione sul momento politico attuale. In realtà il vero scopo, non dichiarato ma a tutti evidente, è quello di realizzare una nuova spartizione dei poteri, cercando un equilibrio tra le diverse forze in campo. Ma quando i convenuti inizieranno a morire l’uno dopo l’altro, uccisi da un assassino misterioso, scoppierà il caos e tutti sospetteranno di tutti. Liberamente tratto dal romanzo omonimo di Leonardo Sciascia, questo metafisico apologo sul potere segna l’ultima collaborazione tra il regista Elio Petri ed il grande attore Gian Maria Volonté. Un connubio, artistico ed umano, straordinario, che ha reso grande il cinema politico italiano degli anni ’70. In quest’opera astratta, dai tratti surreali e grotteschi, nata non a caso negli anni del così detto “compromesso storico”, l’autore intende tracciare un’evidente metafora della decadenza della DC, ispirandosi all’allegoria del “palazzo” utilizzata da Pasolini per raffigurare l’atteggiamento monolitico e corporativo dei galoppini del potere, che operano sempre e comunque per preservare il loro status quo di privilegio. Il personaggio del Presidente M, interpretato, come al solito, in modo straordinario da Volonté, è chiaramente modellato sulla figura di Aldo Moro, che, all’uscita del film, era presidente del consiglio. La caratterizzazione di M, oltre all’incredibile somiglianza fisica con il vero Moro, ne ricalca i modi, gli atteggiamenti, le espressioni, lo stile, attuandone però una distorsione allegorico surreale, una maschera caricaturale, per non incappare in problemi di censura. Dopo la prematura e tragica scomparsa di Pier Paolo Pasolini, l’intellettuale scomodo per eccellenza, Petri ne prende, idealmente, il posto in questo film di denuncia, che ambisce ad essere una sorta di “processo” pubblico, in forma derisoria e farsesca ma con toni di cupa amarezza, alla classe politica dirigente democristiana che ha governato il paese per un trentennio. Tutti i personaggi hanno una connotazione ambigua a sfondo negativo, tutti dimostrano la medesima rapacità nell’ottenimento o nella conservazione della rispettiva “poltrona”. Lo stesso M, dai modi raffinati, affabili e conciliatori, nasconde molti lati oscuri che si disvelano nel corso della pellicola. Il marcato utilizzo del grottesco e lo straniamento espressionista che pervade l’opera, conferendogli un’allucinata atmosfera onirica, rispondono all’esigenza del regista di voler realizzare una denuncia della corruzione e dei malcostumi democristiani, evitando opportunamente gli strali censori grazie all’uso del surrealismo. In questo caotico pamphlet di fantapolitica trovano spazio e spessore elementi eterogenei come le suggestioni sadiane (nell’aula bunker sotterranea dell’albergo-fortino si consuma un’autentica orgia di sadomasochismo politico), le allegorie sessuali (il democristiano eunuco impotente sia sessualmente che politicamente), le profezie apocalittiche (l’autodistruzione di una dirigenza politica arrivata al culmine del suo delirio decadente), le metafore religiose (l’autoflagellazione mortificatrice di uomini che hanno tradito i principi religiosi furbescamente sbandierati e dietro al cui stemma hanno costruito il loro stesso potere temporale, ma anche l’evidente connotazione rituale della cerimonia blasfema con cui i miserabili funzionari scelgono di auto-terminarsi). Quest’opera importante, pretenziosa e, senza dubbio, ermetica, voleva essere la summa dell’arte di Petri, il manifesto definitivo della sua estetica ed il simbolo solenne del suo cinema politico. Ma, con tutti i suoi indubbi meriti satirici e stilistici, non riesce a raggiungere lo status di capolavoro perché manca di equilibrio, di sintesi concreta, ed è troppo rancorosa nella sua programmatica critica distruttiva che finisce per scadere nella retorica di un’agiografia negativa, perdendo, quindi, sia in lucidità che in capacità di sublimazione universale, che sappia elevarsi al di sopra delle beghe meschine della nostra “italietta”. Alla sua uscita il film scatenò furibonde polemiche e venne aspramente criticato sia dalla Democrazia Cristiana che dal Partito Comunista, trovando nel solo Sciascia un veemente difensore. Dopo il rapimento di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse, del cui tragico epilogo quest’opera sembrò dare una sinistra anticipazione profetica, il film fu puntualmente “oscurato” dal potere censorio, finendo nel dimenticatoio per molti anni, come un ingombrante documento di un periodo oscuro che la ragion di stato preferisce far scivolare nell’oblio per una sorta di pavida “decenza”. Al di là di ogni faziosità politica, si può riconoscere, col senno di poi, che la previsione di Petri sulla capitolazione implosiva di DC e PCI si è rivelata del tutto esatta. Nel grande cast spiccano, oltre al protagonista Volonté, Marcello Mastroianni, Michel Piccoli, Mariangela Melato, Franco Citti e Ciccio Ingrassia. Una menzione speciale va data alle inquietanti scenografie visionarie di Dante Ferretti, sospese tra l’incubo espressionista e la distopia surreale.

Voto:
voto: 4/5

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