In
un’atmosfera da apocalisse urbana, con il paese allo sbando sotto gli effetti
di una grave epidemia, alcuni alti esponenti del partito che detiene il potere
da decenni, guidati dal Presidente M, si riuniscono in una sorta di lugubre albergo
convento, diretto dal gesuita don Gaetano, per un ritiro spirituale
comunitario, che porti ad una proficua riflessione sul momento politico
attuale. In realtà il vero scopo, non dichiarato ma a tutti evidente, è quello
di realizzare una nuova spartizione dei poteri, cercando un equilibrio tra le
diverse forze in campo. Ma quando i convenuti inizieranno a morire l’uno dopo
l’altro, uccisi da un assassino misterioso, scoppierà il caos e tutti
sospetteranno di tutti. Liberamente tratto dal romanzo omonimo di Leonardo Sciascia,
questo metafisico apologo sul potere segna l’ultima collaborazione tra il
regista Elio Petri ed il grande attore Gian Maria Volonté. Un connubio, artistico
ed umano, straordinario, che ha reso grande il cinema politico italiano degli
anni ’70. In quest’opera astratta, dai tratti surreali e grotteschi, nata non a
caso negli anni del così detto “compromesso storico”, l’autore intende
tracciare un’evidente metafora della decadenza della DC, ispirandosi
all’allegoria del “palazzo” utilizzata da Pasolini per raffigurare
l’atteggiamento monolitico e corporativo dei galoppini del potere, che operano
sempre e comunque per preservare il loro status quo di privilegio. Il
personaggio del Presidente M, interpretato, come al solito, in modo
straordinario da Volonté, è chiaramente modellato sulla figura di Aldo Moro,
che, all’uscita del film, era presidente del consiglio. La caratterizzazione di
M, oltre all’incredibile somiglianza fisica con il vero Moro, ne ricalca i
modi, gli atteggiamenti, le espressioni, lo stile, attuandone però una
distorsione allegorico surreale, una maschera caricaturale, per non incappare
in problemi di censura. Dopo la prematura e tragica scomparsa di Pier Paolo
Pasolini, l’intellettuale scomodo per eccellenza, Petri ne prende, idealmente,
il posto in questo film di denuncia, che ambisce ad essere una sorta di
“processo” pubblico, in forma derisoria e farsesca ma con toni di cupa
amarezza, alla classe politica dirigente democristiana che ha governato il
paese per un trentennio. Tutti i personaggi hanno una connotazione ambigua a
sfondo negativo, tutti dimostrano la medesima rapacità nell’ottenimento o nella
conservazione della rispettiva “poltrona”. Lo stesso M, dai modi raffinati, affabili
e conciliatori, nasconde molti lati oscuri che si disvelano nel corso della
pellicola. Il marcato utilizzo del grottesco e lo straniamento espressionista
che pervade l’opera, conferendogli un’allucinata atmosfera onirica, rispondono
all’esigenza del regista di voler realizzare una denuncia della corruzione e
dei malcostumi democristiani, evitando opportunamente gli strali censori grazie
all’uso del surrealismo. In questo caotico pamphlet di fantapolitica trovano spazio e spessore elementi
eterogenei come le suggestioni sadiane (nell’aula bunker sotterranea
dell’albergo-fortino si consuma un’autentica orgia di sadomasochismo politico),
le allegorie sessuali (il democristiano eunuco impotente sia sessualmente che
politicamente), le profezie apocalittiche (l’autodistruzione di una dirigenza
politica arrivata al culmine del suo delirio decadente), le metafore religiose
(l’autoflagellazione mortificatrice di uomini che hanno tradito i principi
religiosi furbescamente sbandierati e dietro al cui stemma hanno costruito il
loro stesso potere temporale, ma anche l’evidente connotazione rituale della
cerimonia blasfema con cui i miserabili funzionari scelgono di auto-terminarsi).
Quest’opera importante, pretenziosa e, senza dubbio, ermetica, voleva essere la
summa dell’arte di Petri, il manifesto definitivo della sua estetica ed il
simbolo solenne del suo cinema politico. Ma, con tutti i suoi indubbi meriti
satirici e stilistici, non riesce a raggiungere lo status di capolavoro perché
manca di equilibrio, di sintesi concreta, ed è troppo rancorosa nella sua
programmatica critica distruttiva che finisce per scadere nella retorica di
un’agiografia negativa, perdendo, quindi, sia in lucidità che in capacità di
sublimazione universale, che sappia elevarsi al di sopra delle beghe meschine
della nostra “italietta”. Alla sua uscita il film scatenò furibonde polemiche e
venne aspramente criticato sia dalla Democrazia Cristiana che dal Partito
Comunista, trovando nel solo Sciascia un veemente difensore. Dopo il rapimento
di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse, del cui tragico epilogo quest’opera
sembrò dare una sinistra anticipazione profetica, il film fu puntualmente
“oscurato” dal potere censorio, finendo nel dimenticatoio per molti anni, come
un ingombrante documento di un periodo oscuro che la ragion di stato preferisce
far scivolare nell’oblio per una sorta di pavida “decenza”. Al di là di ogni
faziosità politica, si può riconoscere, col senno di poi, che la previsione di
Petri sulla capitolazione implosiva di DC e PCI si è rivelata del tutto esatta.
Nel grande cast spiccano, oltre al protagonista Volonté, Marcello Mastroianni,
Michel Piccoli, Mariangela Melato, Franco Citti e Ciccio Ingrassia. Una
menzione speciale va data alle inquietanti scenografie visionarie di Dante
Ferretti, sospese tra l’incubo espressionista e la distopia surreale.
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