Il
nuovo papa, appena eletto dal conclave, viene colto da attacco di panico, si
sente inadatto al gravoso compito che lo attende ed entra in una profonda crisi
esistenziale e religiosa. I cardinali, preoccupati, si rivolgono ad uno
psicanalista che, costretto a mantenere il segreto e soggiornare nelle mura
vaticane, cerca di farlo recedere dal suo dubbio, per favorirne il
ripensamento. Ma, intanto, il papa scappa e sparisce, in abiti borghesi, nelle
vie di Roma, come un uomo comune, alla ricerca di se stesso. Complesso dramma
esistenziale morettiano sul tema della rinuncia e della solitudine, la cui
roboante tematica ed ambientazione, che ne han fatto da indubbia cassa di
risonanza, vanno lette nell’ottica dello spirito iconoclasta del geniale
autore, corrosivo, irriverente ma, in questo caso più che mai, lucido e maturo.
La componente religiosa, la riflessione sulla Chiesa contemporanea e sulla fede
nell’opulenta società capitalistica del nuovo millennio, indubbiamente presenti
e pregnanti, non costituiscono il cuore intimo dell’opera, che è principalmente
interessata all’uomo, alla sua deriva, al suo sbandamento, in un mondo in cui,
cadute le icone e distrutti i simboli, le coordinate morali di riferimento
appaiono incerte. Tutto questo è emblematicamente rappresentato da un papa
umano, timido, smarrito, tenero ed umile, egregiamente interpretato da Michel
Piccoli, che contiene e riassume la crisi e tutte le contraddizioni dell’essere
umano moderno, nell’atavico conflitto tra essere e apparire, scelta e dovere,
responsabilità e libertà. Moretti ci offre un racconto a due livelli paralleli,
sapientemente alternati ed incastonati l’uno nell’altro: quello ironico
regressivo, denso di lampi grotteschi, del rapporto tra il suo loquace
psicanalista e i pittoreschi cardinali, che trova il suo apice spudorato nel
torneo di pallavolo nel cortile vaticano, e quello, dolente e cupo, del mesto
peregrinare del papa in borghese nelle strade della “città eterna”, prigioniero
di un ruolo ingombrante e vagabondo inquieto a caccia di un antico sogno di
gioventù (il teatro), allegoria della beffarda crudeltà della vita, che ci
obbliga ad indossare una maschera, ad essere conformi per evitare di essere
banditi. Nel primo livello l’autore, sotto la coltre ironica, esprime, con
sincera amarezza e raggelante cinismo, la consapevolezza della totale mancanza
di senso, connotandola con una colta citazione darwiniana. Come a dire che se,
una volta, la messa era finita, adesso è la Chiesa ad esserlo e bisogna concentrarsi
sull’uomo, riponendo in esso la speranza per il futuro. Nel secondo livello c’è
la ricerca disperata di un uomo in fuga, un uomo malinconico dal sorriso
radioso, adorabile nella sua debolezza, troppo umana per poter essere “divina”.
Quest’uomo sfuggente ed insicuro, ma non privo di grazia nella sua evidente
umiltà, cerca la verità tra la gente, scende dal piedistallo di secoli di
rigido immobilismo per perdersi tra le braccia, “peccaminose” ma vere, delle
persone normali. Quest’uomo pavidamente coraggioso fa quello che la Chiesa dovrebbe fare per
ritrovare la credibilità perduta e riallacciare un rapporto autentico, non di
facciata, non di folclore, con il cuore dei fedeli: abbandonare i troni solenni
e decadenti e discendere tra la gente, condividerne i problemi, le ansie, il
linguaggio, disperdendosi in essa. Il finale apocalittico segna l’apice del
discorso umanistico dell’autore e sospende il giudizio dello spettatore su un
ambiguo e straordinario dilemma etico: la rinuncia in nome della propria
libertà individuale è un atto di codardia o di eroismo ? Tra serio e faceto
Moretti va dritto al cuore del problema ed instillando nello spettatore
l’atavico dubbio detto prima, sembra indicare in esso l’unico atteggiamento
sensato e realistico che l’uomo contemporaneo debba avere. Perché il dubbio è
un segno di intelligenza e da esso possono scaturire ideali positivi, proposte
concrete, mentre il paravento della certezza è un evidente sintomo di debolezza
o, ancor peggio, di malafede, a tutela dei propri interessi. In questo film
laico, sospeso tra commedia e tragedia, tutti i personaggi principali sono
prigionieri di qualcosa: il papa del suo pesante ruolo iconico che non sa o non
vuole sopportare, lo psicanalista del suo frustrante rapporto, sentimentale e
professionale, con la ex moglie, i cardinali di una situazione improvvisa,
complicata ed angosciante, oltre le loro capacità di gestione. Ma tutti cercano
di reagire, tutti si danno da fare per trovare una soluzione, dando voce ed
ascolto alla propria umanità, alla propria capacità di relazionarsi con il
prossimo, cercando in esso la propria dimensione, un reale equilibrio, anche a
costo di decisioni dolorose. Lode a Moretti ed alla sua rinnovata capacità di
leggere, sotto la lente di un surreale cinismo, le contraddizioni e gli umori
della nostra società, ponendo domande scomode e calibrate, e lasciando a noi
l’arduo compito di fornire una possibile risposta, di dare un giudizio,
provocando così una riflessione. Ed onore anche alla sua abilità di essere
preveggente, anticipando, con sinistra lungimiranza, gli eventi che hanno
portato alla storica rinuncia di papa Benedetto XVI. La qual cosa non è, tra
l’altro, niente affatto nuova nella storia del cinema d’autore.
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