domenica 22 febbraio 2015

Habemus Papam (Habemus Papam, 2011) di Nanni Moretti

Il nuovo papa, appena eletto dal conclave, viene colto da attacco di panico, si sente inadatto al gravoso compito che lo attende ed entra in una profonda crisi esistenziale e religiosa. I cardinali, preoccupati, si rivolgono ad uno psicanalista che, costretto a mantenere il segreto e soggiornare nelle mura vaticane, cerca di farlo recedere dal suo dubbio, per favorirne il ripensamento. Ma, intanto, il papa scappa e sparisce, in abiti borghesi, nelle vie di Roma, come un uomo comune, alla ricerca di se stesso. Complesso dramma esistenziale morettiano sul tema della rinuncia e della solitudine, la cui roboante tematica ed ambientazione, che ne han fatto da indubbia cassa di risonanza, vanno lette nell’ottica dello spirito iconoclasta del geniale autore, corrosivo, irriverente ma, in questo caso più che mai, lucido e maturo. La componente religiosa, la riflessione sulla Chiesa contemporanea e sulla fede nell’opulenta società capitalistica del nuovo millennio, indubbiamente presenti e pregnanti, non costituiscono il cuore intimo dell’opera, che è principalmente interessata all’uomo, alla sua deriva, al suo sbandamento, in un mondo in cui, cadute le icone e distrutti i simboli, le coordinate morali di riferimento appaiono incerte. Tutto questo è emblematicamente rappresentato da un papa umano, timido, smarrito, tenero ed umile, egregiamente interpretato da Michel Piccoli, che contiene e riassume la crisi e tutte le contraddizioni dell’essere umano moderno, nell’atavico conflitto tra essere e apparire, scelta e dovere, responsabilità e libertà. Moretti ci offre un racconto a due livelli paralleli, sapientemente alternati ed incastonati l’uno nell’altro: quello ironico regressivo, denso di lampi grotteschi, del rapporto tra il suo loquace psicanalista e i pittoreschi cardinali, che trova il suo apice spudorato nel torneo di pallavolo nel cortile vaticano, e quello, dolente e cupo, del mesto peregrinare del papa in borghese nelle strade della “città eterna”, prigioniero di un ruolo ingombrante e vagabondo inquieto a caccia di un antico sogno di gioventù (il teatro), allegoria della beffarda crudeltà della vita, che ci obbliga ad indossare una maschera, ad essere conformi per evitare di essere banditi. Nel primo livello l’autore, sotto la coltre ironica, esprime, con sincera amarezza e raggelante cinismo, la consapevolezza della totale mancanza di senso, connotandola con una colta citazione darwiniana. Come a dire che se, una volta, la messa era finita, adesso è la Chiesa ad esserlo e bisogna concentrarsi sull’uomo, riponendo in esso la speranza per il futuro. Nel secondo livello c’è la ricerca disperata di un uomo in fuga, un uomo malinconico dal sorriso radioso, adorabile nella sua debolezza, troppo umana per poter essere “divina”. Quest’uomo sfuggente ed insicuro, ma non privo di grazia nella sua evidente umiltà, cerca la verità tra la gente, scende dal piedistallo di secoli di rigido immobilismo per perdersi tra le braccia, “peccaminose” ma vere, delle persone normali. Quest’uomo pavidamente coraggioso fa quello che la Chiesa dovrebbe fare per ritrovare la credibilità perduta e riallacciare un rapporto autentico, non di facciata, non di folclore, con il cuore dei fedeli: abbandonare i troni solenni e decadenti e discendere tra la gente, condividerne i problemi, le ansie, il linguaggio, disperdendosi in essa. Il finale apocalittico segna l’apice del discorso umanistico dell’autore e sospende il giudizio dello spettatore su un ambiguo e straordinario dilemma etico: la rinuncia in nome della propria libertà individuale è un atto di codardia o di eroismo ? Tra serio e faceto Moretti va dritto al cuore del problema ed instillando nello spettatore l’atavico dubbio detto prima, sembra indicare in esso l’unico atteggiamento sensato e realistico che l’uomo contemporaneo debba avere. Perché il dubbio è un segno di intelligenza e da esso possono scaturire ideali positivi, proposte concrete, mentre il paravento della certezza è un evidente sintomo di debolezza o, ancor peggio, di malafede, a tutela dei propri interessi. In questo film laico, sospeso tra commedia e tragedia, tutti i personaggi principali sono prigionieri di qualcosa: il papa del suo pesante ruolo iconico che non sa o non vuole sopportare, lo psicanalista del suo frustrante rapporto, sentimentale e professionale, con la ex moglie, i cardinali di una situazione improvvisa, complicata ed angosciante, oltre le loro capacità di gestione. Ma tutti cercano di reagire, tutti si danno da fare per trovare una soluzione, dando voce ed ascolto alla propria umanità, alla propria capacità di relazionarsi con il prossimo, cercando in esso la propria dimensione, un reale equilibrio, anche a costo di decisioni dolorose. Lode a Moretti ed alla sua rinnovata capacità di leggere, sotto la lente di un surreale cinismo, le contraddizioni e gli umori della nostra società, ponendo domande scomode e calibrate, e lasciando a noi l’arduo compito di fornire una possibile risposta, di dare un giudizio, provocando così una riflessione. Ed onore anche alla sua abilità di essere preveggente, anticipando, con sinistra lungimiranza, gli eventi che hanno portato alla storica rinuncia di papa Benedetto XVI. La qual cosa non è, tra l’altro, niente affatto nuova nella storia del cinema d’autore.

Voto:
voto: 4/5

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