giovedì 5 febbraio 2015

Django Unchained (Django Unchained, 2012) di Quentin Tarantino

Nel sud degli Stati Uniti lo schiavo nero Django viene liberato dal pittoresco dottor Schultz, dentista e cacciatore di taglie di origine tedesca. Lo scopo è la cattura dei famigerati fratelli Brittle, pericolosi banditi sulla cui testa pende una lauta taglia, e di cui Django conosce volto e ubicazione. Dopo aver ucciso i Brittle ed incassato il compenso, i due uomini danno vita ad una singolare coppia di “bounty killers”, guadagnando enormi somme ed eliminando numerosi furfanti a piede libero. Ma il vero scopo di Django è quello di liberare sua moglie Broomhilda, schiava a Candyland, famigerata piantagione del Mississippi comandata dal perfido negriero Calvin J. Candie che, sotto l’aspetto curato e le buone maniere, nasconde un animo sadico e spietato, pronto a uccidere e torturare i suoi schiavi neri al minimo pretesto. L’equanime dottor Schultz, impietosito dalla triste vicenda del suo aiutante, si convince ad aiutarlo e i due uomini prendono così contatto con Mr. Candie, con la scusa di voler acquistare un “mandingo”, un lottatore nero da utilizzare in violenti scontri all’ultimo sangue, alla maniera dei gladiatori dell’antica Roma. Dopo otto film e tanti successi, l’approdo al western per Quentin Tarantino era quasi inevitabile, visto che ne ha sempre tessuto le lodi, declamando il suo amore in particolare per quello italiano di Sergio Leone & co. L’approccio tarantiniano con uno dei generi nobili del cinema americano è, ovviamente, inconsueto e dissacrante, secondo il suo stile costantemente sul filo del bizzarro. Rifacendosi solo in parte alla materia dello “spaghetti western”, con il titolo ed il nome del protagonista che sono un dichiarato atto d’amore verso Django (1966) di  Sergio Corbucci, l’autore si ispira alla tradizione dei western “sporchi” ed alternativi, rinverdendola con un’ironia nera dissacrante, la lurida amoralità dei “B movies”, feroci esplosioni di violenza iperbolica che vira nel fumettistico, i consueti dialoghi sul filo della cervellotica cialtroneria, gli antieroi cinici e irresistibili ed una precisa collocazione storico sociale, volta a denunciare la più vergognosa macchia della breve storia americana, insieme allo sterminio dei nativi: lo schiavismo a danno degli uomini di colore, strappati dalla nativa Africa e tradotti in catene nelle piantagioni del Sud, venduti ed umiliati come bestie da soma. Per la seconda volta nella sua carriera, Tarantino si confronta con un argomento storico reale, tragico e scottante, dopo il precedente Bastardi senza gloria, di cui questo western costituisce una sorta di “appendice”, per la continuità tematica e stilistica ed anche per la presenza “ingombrante” del bravissimo Christoph Waltz, che interpreta un personaggio per certi versi simile al precedente, con un effetto déjà vu che di certo non brilla per originalità. Ma questo Django Unchained, per quanto stilisticamente impeccabile ed assolutamente godibile come grande avventura “di genere”, impreziosito dall’esuberanza espressiva e dal gustoso citazionismo del suo autore, risulta inferiore rispetto al suo eccellente predecessore: meno geniale, meno agile, meno equilibrato e, soprattutto, privo dell’ardita sperimentazione estetica che è sempre stato il cavallo di battaglia del regista di Knoxville. Quando si parla di Tarantino ci si aspetta sempre il capolavoro e non ci si accontenta di un film solamente buono, a tratti ottimo, come questo, per cui se, indubbiamente, ci si esalta nei suoi momenti di grande cinema, come quello della cena a Candyland, non si può nascondere un pizzico di delusione complessiva per l’occasione mancata. Nel grande cast, tra l’adorabile cameo di Franco Nero (il Django originale), un Jamie Foxx non proprio a suo agio ed un Christoph Waltz bravo ma ripetitivo (generosamente premiato dall’Academy con il secondo Oscar consecutivo), spicca il mefistofelico Leonardo DiCaprio nei panni del cattivissimo Calvin J. Candie, autentica anima nera del film. Della colonna sonora, anche questa bella ma meno folgorante che in altre occasioni, citiamo l’omaggio (da ovazione) al celebre Lo chiamavano Trinità di Enzo Barboni e la composizione, originale per l’occasione, del Maestro Ennio Morricone, anche questa un po’ sotto tono rispetto alle attese. La pellicola, premiata con due Oscar (Tarantino alla sceneggiatura originale e Waltz non protagonista), è stata comunque un grande successo sia di critica che di pubblico, facendo registrare addirittura il maggior incasso in assoluto nella filmografia del regista. E questo, evidentemente, è un chiaro indicatore del suo essere più “commerciale” rispetto agli standard dell’autore, ormai talmente popolare da potersi permettere (quasi) tutto.

Voto:
voto: 4/5

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