Nel sud degli Stati Uniti lo schiavo nero
Django viene liberato dal pittoresco dottor Schultz, dentista e cacciatore di
taglie di origine tedesca. Lo scopo è la cattura dei famigerati fratelli Brittle,
pericolosi banditi sulla cui testa pende una lauta taglia, e di cui Django
conosce volto e ubicazione. Dopo aver ucciso i Brittle ed incassato il
compenso, i due uomini danno vita ad una singolare coppia di “bounty killers”, guadagnando enormi
somme ed eliminando numerosi furfanti a piede libero. Ma il vero scopo di Django
è quello di liberare sua moglie Broomhilda, schiava a Candyland, famigerata
piantagione del Mississippi comandata dal perfido negriero Calvin J. Candie che,
sotto l’aspetto curato e le buone maniere, nasconde un animo sadico e spietato,
pronto a uccidere e torturare i suoi schiavi neri al minimo pretesto.
L’equanime dottor Schultz, impietosito dalla triste vicenda del suo aiutante,
si convince ad aiutarlo e i due uomini prendono così contatto con Mr. Candie,
con la scusa di voler acquistare un “mandingo”, un lottatore nero da utilizzare
in violenti scontri all’ultimo sangue, alla maniera dei gladiatori dell’antica
Roma. Dopo otto film e tanti successi, l’approdo al western per Quentin
Tarantino era quasi inevitabile, visto che ne ha sempre tessuto le lodi,
declamando il suo amore in particolare per quello italiano di Sergio Leone
& co. L’approccio tarantiniano con uno dei generi nobili del cinema
americano è, ovviamente, inconsueto e dissacrante, secondo il suo stile
costantemente sul filo del bizzarro. Rifacendosi solo in parte alla materia
dello “spaghetti western”, con il titolo ed il nome del protagonista che sono
un dichiarato atto d’amore verso Django (1966)
di Sergio Corbucci, l’autore si ispira
alla tradizione dei western “sporchi” ed alternativi, rinverdendola con
un’ironia nera dissacrante, la lurida amoralità dei “B movies”, feroci esplosioni di violenza iperbolica che vira nel
fumettistico, i consueti dialoghi sul filo della cervellotica cialtroneria, gli
antieroi cinici e irresistibili ed una precisa collocazione storico sociale,
volta a denunciare la più vergognosa macchia della breve storia americana,
insieme allo sterminio dei nativi: lo schiavismo a danno degli uomini di colore,
strappati dalla nativa Africa e tradotti in catene nelle piantagioni del Sud,
venduti ed umiliati come bestie da soma. Per la seconda volta nella sua
carriera, Tarantino si confronta con un argomento storico reale, tragico e
scottante, dopo il precedente Bastardi
senza gloria, di cui questo western costituisce una sorta di
“appendice”, per la continuità tematica e stilistica ed anche per la presenza
“ingombrante” del bravissimo Christoph Waltz, che interpreta un personaggio per
certi versi simile al precedente, con un effetto déjà vu che di certo non brilla per originalità. Ma questo Django Unchained, per quanto stilisticamente
impeccabile ed assolutamente godibile come grande avventura “di genere”,
impreziosito dall’esuberanza espressiva e dal gustoso citazionismo del suo
autore, risulta inferiore rispetto al suo eccellente predecessore: meno
geniale, meno agile, meno equilibrato e, soprattutto, privo dell’ardita
sperimentazione estetica che è sempre stato il cavallo di battaglia del regista
di Knoxville. Quando si parla di Tarantino ci si aspetta sempre il capolavoro e
non ci si accontenta di un film solamente buono, a tratti ottimo, come questo,
per cui se, indubbiamente, ci si esalta nei suoi momenti di grande cinema, come
quello della cena a Candyland, non si può nascondere un pizzico di delusione
complessiva per l’occasione mancata. Nel grande cast, tra l’adorabile cameo di
Franco Nero (il Django originale), un Jamie Foxx non proprio a suo agio ed un Christoph
Waltz bravo ma ripetitivo (generosamente premiato dall’Academy con il secondo
Oscar consecutivo), spicca il mefistofelico Leonardo DiCaprio nei panni del
cattivissimo Calvin J. Candie, autentica anima nera del film. Della colonna
sonora, anche questa bella ma meno folgorante che in altre occasioni, citiamo
l’omaggio (da ovazione) al celebre Lo
chiamavano Trinità di Enzo Barboni e la composizione, originale per l’occasione,
del Maestro Ennio Morricone, anche questa un po’ sotto tono rispetto alle
attese. La pellicola, premiata con due Oscar (Tarantino alla sceneggiatura
originale e Waltz non protagonista), è stata comunque un grande successo sia di
critica che di pubblico, facendo registrare addirittura il maggior incasso in
assoluto nella filmografia del regista. E questo, evidentemente, è un chiaro
indicatore del suo essere più “commerciale” rispetto agli standard dell’autore,
ormai talmente popolare da potersi permettere (quasi) tutto.
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