giovedì 5 febbraio 2015

Uccellacci e uccellini (Uccellacci e uccellini, 1966) di Pier Paolo Pasolini

Un padre e un figlio, Totò e Ninetto, vagano per la periferie romane e le campagne circostanti. Durante il loro peregrinare gli appare un corvo parlante, eloquente e forbito, che gli racconta, tra le altre cose, la storia di frate Ciccillo e di frate Ninetto, due francescani a cui il santo di Assisi, fondatore dell’ordine, aveva affidato l’arduo compito di far coesistere in pace falchi e passeri, ponendo fine all’eterna rivalità. I due uomini fanno vari incontri nel loro vagare: una prostituta, dei reietti disperati, un gruppo di attori, incrociando persino il funerale di Palmiro Togliatti, mentre il corvo non smette mai di parlare, con la sua prolissa oratoria. Ma quando Totò e Ninetto avranno l’incombente problema della fame, se lo mangeranno senza esitare. Favola filosofico allegorica di significato politico, con punte di grottesco, momenti lirici, riflessioni sociali ed inserti visionari di fantasia superiore, che la rendono unica nella filmografia dell’autore e, probabilmente, nella storia del cinema italiano. I protagonisti, interpretati da Totò e Ninetto Davoli, sono personaggi stravaganti ed umani, teneri e cinici, leggeri e gretti, allegorie poetiche, evidentemente distorte dalla dimensione favolistica dell’opera, di quelle classi proletarie tanto amate dal regista bolognese. Pasolini scelse come protagonista Totò, celebre icona di quel cinema popolare tanto amato dal pubblico quanto perennemente bersagliato dalla critica, attratto dalla sua maschera comica e triste, in grado di dar vita, con naturalezza, alle forti contraddizioni che convivono nelle classi più disagiate, capaci di passare, in un attimo, dall’efferata brutalità alla pietosa dolcezza. Il famoso attore comico napoletano trasse un inaspettato, e postumo, consenso critico dall’incontro con il regista poeta, ricevendo un premio speciale al Festival di Cannes ed ottenendo, finalmente, quella visibilità “colta” che solo il cinema d’autore può garantire. Il corvo è una chiara metafora dell’intellettuale di sinistra al tempo di Togliatti, del suo ruolo di “educatore” delle masse dopo il boom economico e le trasformazioni sociali che hanno mutato le classi contadine in operaie, con conseguente nascita di squallidi ghetti urbani nelle periferie metropolitane. Il corvo pasoliniano contiene tutte le contraddizioni e la crisi del vecchio modello marxista, che, dopo le glorie della Resistenza e degli anni ’50, non ha saputo adattarsi ai rapidi cambiamenti sociali, alle nuove esigenze del proletariato, diventando anacronistico, prolisso, paternalistico, pedante nel suo sofisma intellettuale povero di senso pratico, e, quindi, lontano dai bisogni del popolo. L’atroce fine riservata al corvo è una metafora chiarissima del pensiero dell’autore in merito alla sorte dell’ideologia marxista sul finire degli anni ’60: destinata a soccombere perché inadatta a soddisfare le reali esigenze della gente. E anche la sequenza surreale del funerale di Togliatti è in evidente sintonia con questo impianto “a tesi”. La sorte del corvo segna, anche, la mancanza di una guida autorevole nella sinistra italiana, una voce capace di arrivare alle masse, a quel popolo incolto ma “innocente”, amato dal regista ed egregiamente incarnato da Totò e Ninetto. In questo capolavoro pasoliniano, forte di quell’umiltà e di quella leggerezza tipica delle opere di grande statura morale, troviamo condensati, in 90 minuti, politica e storia, poesia e religione, sociologia e lirismo, miseria e incanto, il tutto amalgamato in una dimensione trasognata, onirica e idealista, che ha pochi eguali nel nostro cinema, a meno di scomodare mostri sacri come Fellini. Da segnalare la suggestiva colonna sonora di Ennio Morricone e la splendida fotografia in bianco e nero di Tonino Delli Colli e Mario Bernardo, che conferisce alle periferie romane in costruzione un etereo risalto espressivo, una sorta di moderno “deserto” sospeso ai margini della civiltà borghese.

Voto:
voto: 5/5

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