Un padre e un figlio, Totò e Ninetto,
vagano per la periferie romane e le campagne circostanti. Durante il loro
peregrinare gli appare un corvo parlante, eloquente e forbito, che gli racconta,
tra le altre cose, la storia di frate Ciccillo e di frate Ninetto, due
francescani a cui il santo di Assisi, fondatore dell’ordine, aveva affidato
l’arduo compito di far coesistere in pace falchi e passeri, ponendo fine
all’eterna rivalità. I due uomini fanno vari incontri nel loro vagare: una
prostituta, dei reietti disperati, un gruppo di attori, incrociando persino il
funerale di Palmiro Togliatti, mentre il corvo non smette mai di parlare, con
la sua prolissa oratoria. Ma quando Totò e Ninetto avranno l’incombente
problema della fame, se lo mangeranno senza esitare. Favola filosofico
allegorica di significato politico, con punte di grottesco, momenti lirici,
riflessioni sociali ed inserti visionari di fantasia superiore, che la rendono
unica nella filmografia dell’autore e, probabilmente, nella storia del cinema
italiano. I protagonisti, interpretati da Totò e Ninetto Davoli, sono personaggi
stravaganti ed umani, teneri e cinici, leggeri e gretti, allegorie poetiche,
evidentemente distorte dalla dimensione favolistica dell’opera, di quelle
classi proletarie tanto amate dal regista bolognese. Pasolini scelse come
protagonista Totò, celebre icona di quel cinema popolare tanto amato dal
pubblico quanto perennemente bersagliato dalla critica, attratto dalla sua
maschera comica e triste, in grado di dar vita, con naturalezza, alle forti
contraddizioni che convivono nelle classi più disagiate, capaci di passare, in
un attimo, dall’efferata brutalità alla pietosa dolcezza. Il famoso attore
comico napoletano trasse un inaspettato, e postumo, consenso critico
dall’incontro con il regista poeta, ricevendo un premio speciale al Festival di
Cannes ed ottenendo, finalmente, quella visibilità “colta” che solo il cinema
d’autore può garantire. Il corvo è una chiara metafora dell’intellettuale di
sinistra al tempo di Togliatti, del suo ruolo di “educatore” delle masse dopo
il boom economico e le trasformazioni sociali che hanno mutato le classi
contadine in operaie, con conseguente nascita di squallidi ghetti urbani nelle
periferie metropolitane. Il corvo pasoliniano contiene tutte le contraddizioni
e la crisi del vecchio modello marxista, che, dopo le glorie della Resistenza e
degli anni ’50, non ha saputo adattarsi ai rapidi cambiamenti sociali, alle
nuove esigenze del proletariato, diventando anacronistico, prolisso,
paternalistico, pedante nel suo sofisma intellettuale povero di senso pratico,
e, quindi, lontano dai bisogni del popolo. L’atroce fine riservata al corvo è
una metafora chiarissima del pensiero dell’autore in merito alla sorte
dell’ideologia marxista sul finire degli anni ’60: destinata a soccombere
perché inadatta a soddisfare le reali esigenze della gente. E anche la sequenza
surreale del funerale di Togliatti è in evidente sintonia con questo impianto
“a tesi”. La sorte del corvo segna, anche, la mancanza di una guida autorevole
nella sinistra italiana, una voce capace di arrivare alle masse, a quel popolo
incolto ma “innocente”, amato dal regista ed egregiamente incarnato da Totò e
Ninetto. In questo capolavoro pasoliniano, forte di quell’umiltà e di quella
leggerezza tipica delle opere di grande statura morale, troviamo condensati, in
90 minuti, politica e storia, poesia e religione, sociologia e lirismo, miseria
e incanto, il tutto amalgamato in una dimensione trasognata, onirica e
idealista, che ha pochi eguali nel nostro cinema, a meno di scomodare mostri
sacri come Fellini. Da segnalare la suggestiva colonna sonora di Ennio
Morricone e la splendida fotografia in bianco e nero di Tonino Delli Colli e
Mario Bernardo, che conferisce alle periferie romane in costruzione un etereo
risalto espressivo, una sorta di moderno “deserto” sospeso ai margini della
civiltà borghese.
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