Il
giovane Pi Patel è costretto a lasciare la sua India insieme alla famiglia
(padre, madre e fratello maggiore), imbarcandosi su una nave in rotta per il
Canada, perché l’attività paterna, la gestione di un giardino zoologico, non
rende più come un tempo. Ma, a causa di una tempesta, il natante su cui
viaggiano Pi, i suoi familiari e gli animali del loro zoo, affonda nell’Oceano
Pacifico ed il giovane riesce miracolosamente a salvarsi su una scialuppa di
salvataggio. Ma Pi non è l’unico superstite del tragico naufragio e dovrà
condividere l’esiguo spazio vitale con un orango, una iena, una zebra ed una
feroce tigre del Bengala, che deve il suo pittoresco nome, Richard Parker, ad
un errore di registrazione. Ben presto gli animali moriranno e Pi resterà solo
ad affrontare l’oceano, lottando contro la fame, la sete e la letale tigre, il
peggior compagno di sventura possibile. Dal romanzo omonimo di Yann Martel, Ang
Lee ha tratto un film visivamente stupefacente, sospeso tra grande avventura,
misticismo filosofico, romanzo di formazione, favola elegiaca, incanto
naturalistico e spiritualità “new age”, con ambizioni di parabola allegorica
sulla fede. Probabilmente un po’ troppo per un blockbuster hollywoodiano,
perché di questo si tratta, che, seppure di buon livello qualitativo, finisce
per essere un po’ schiacciato dall’ingombranza concettuale dei tanti temi
affrontati nel sottotesto, risultando invece eccellente nella sua dimensione
avventurosa, soprattutto grazie a delle immagini straordinarie, magiche,
potenti, tra le più belle viste al cinema negli ultimi anni, frutto di uno
straordinario lavoro di accostamento tra scenari reali ed effetti speciali
generati in CGI. Con qualche eccesso spettacolare di troppo, specie nella
concezione troppo “disneyana” degli elementi naturali, e qualche prolissità
didascalica nel dialogo tra il maturo Pi ed il giovane scrittore a cui viene
raccontata la storia in flashback, il film garantisce un valido intrattenimento
per famiglie e si concede, nell’ ambiguo finale spiazzante, persino il lusso di
una sottile riflessione sulla natura della fede, che poggia, necessariamente,
le sue basi sull’accettazione di una “verità” forse fasulla, sicuramente
edulcorata. Peccato che, come spesso accade nel cinema mainstream, tutto
risulti appena accennato e rimanga semisepolto sotto la miriade di effetti
speciali, sia pure superlativi come in questo caso. Il cerchio metaforico,
dalla convivenza simbiotica al traumatico distacco tra uomo e tigre, inteso, evidentemente,
come turbolenta sinergia di elementi opposti della natura umana, non si chiude,
quindi, del tutto e lascia allo spettatore il suggestivo compito di scegliere,
liberamente, in che cosa credere. Dal punto di vista tecnico il film segna una
nuova pietra miliare nella storia degli effetti visivi e, in particolare,
nell’uso espressivamente artistico del 3D, “oggetto” misterioso del nuovo corso
della “fabbrica dei sogni”, particolarmente attivo, e di moda, negli ultimi
tempi. La regia talentuosa, ma non sempre misurata e non esente da manierismo,
del regista taiwanese, è stata premiata con l’Oscar, il secondo della sua
notevole carriera. Gli altre tre premi, tutti di natura tecnica e tutti dovuti,
hanno reso il giusto tributo ad un’opera affascinante e sicuramente importante
della stagione 2012, che non si fa mancare, ovviamente, neanche le abituali
dosi di retorica “politicamente corretta” dei blockbuster d’oltre oceano.
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