lunedì 9 febbraio 2015

Vita di Pi (Life of Pi, 2012) di Ang Lee

Il giovane Pi Patel è costretto a lasciare la sua India insieme alla famiglia (padre, madre e fratello maggiore), imbarcandosi su una nave in rotta per il Canada, perché l’attività paterna, la gestione di un giardino zoologico, non rende più come un tempo. Ma, a causa di una tempesta, il natante su cui viaggiano Pi, i suoi familiari e gli animali del loro zoo, affonda nell’Oceano Pacifico ed il giovane riesce miracolosamente a salvarsi su una scialuppa di salvataggio. Ma Pi non è l’unico superstite del tragico naufragio e dovrà condividere l’esiguo spazio vitale con un orango, una iena, una zebra ed una feroce tigre del Bengala, che deve il suo pittoresco nome, Richard Parker, ad un errore di registrazione. Ben presto gli animali moriranno e Pi resterà solo ad affrontare l’oceano, lottando contro la fame, la sete e la letale tigre, il peggior compagno di sventura possibile. Dal romanzo omonimo di Yann Martel, Ang Lee ha tratto un film visivamente stupefacente, sospeso tra grande avventura, misticismo filosofico, romanzo di formazione, favola elegiaca, incanto naturalistico e spiritualità “new age”, con ambizioni di parabola allegorica sulla fede. Probabilmente un po’ troppo per un blockbuster hollywoodiano, perché di questo si tratta, che, seppure di buon livello qualitativo, finisce per essere un po’ schiacciato dall’ingombranza concettuale dei tanti temi affrontati nel sottotesto, risultando invece eccellente nella sua dimensione avventurosa, soprattutto grazie a delle immagini straordinarie, magiche, potenti, tra le più belle viste al cinema negli ultimi anni, frutto di uno straordinario lavoro di accostamento tra scenari reali ed effetti speciali generati in CGI. Con qualche eccesso spettacolare di troppo, specie nella concezione troppo “disneyana” degli elementi naturali, e qualche prolissità didascalica nel dialogo tra il maturo Pi ed il giovane scrittore a cui viene raccontata la storia in flashback, il film garantisce un valido intrattenimento per famiglie e si concede, nell’ ambiguo finale spiazzante, persino il lusso di una sottile riflessione sulla natura della fede, che poggia, necessariamente, le sue basi sull’accettazione di una “verità” forse fasulla, sicuramente edulcorata. Peccato che, come spesso accade nel cinema mainstream, tutto risulti appena accennato e rimanga semisepolto sotto la miriade di effetti speciali, sia pure superlativi come in questo caso. Il cerchio metaforico, dalla convivenza simbiotica al traumatico distacco tra uomo e tigre, inteso, evidentemente, come turbolenta sinergia di elementi opposti della natura umana, non si chiude, quindi, del tutto e lascia allo spettatore il suggestivo compito di scegliere, liberamente, in che cosa credere. Dal punto di vista tecnico il film segna una nuova pietra miliare nella storia degli effetti visivi e, in particolare, nell’uso espressivamente artistico del 3D, “oggetto” misterioso del nuovo corso della “fabbrica dei sogni”, particolarmente attivo, e di moda, negli ultimi tempi. La regia talentuosa, ma non sempre misurata e non esente da manierismo, del regista taiwanese, è stata premiata con l’Oscar, il secondo della sua notevole carriera. Gli altre tre premi, tutti di natura tecnica e tutti dovuti, hanno reso il giusto tributo ad un’opera affascinante e sicuramente importante della stagione 2012, che non si fa mancare, ovviamente, neanche le abituali dosi di retorica “politicamente corretta” dei blockbuster d’oltre oceano.

Voto:
voto: 3,5/5

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