Luciano
è un pescivendolo napoletano che trascorre le sue giornate tra lavoro saltuario,
piccole truffe, una famiglia pittoresca ed ingombrante e la sua naturale carica
di simpatia e loquacità, che lo spinge ad improvvisate “esibizioni” davanti ai
clienti della pescheria. Spinto da familiari e conoscenti, partecipa ai provini
per il reality televisivo “Grande Fratello” e, da quel momento, la sua vita
cambia. Il nostro entra in una patologica spirale ossessiva, nell’attesa della
fatidica chiamata, e non riuscirà più a distinguere la realtà dalla fantasia.
Grottesca commedia di costume dagli accenti tragici, mirabile nella messa in
scena ambientale, nei personaggi stralunati, patetici figli illegittimi della
società dell’immagine, della tv spazzatura e della deriva morale e culturale
dei nostri tempi. Sospeso abilmente tra il kitsch più greve e la geniale
invenzione visiva, è un dramma surreale di appariscente antirealismo in cui si
ride, amaramente, e si partecipa, nella più cupa seconda parte, all’involuzione
interiore del protagonista, emblema dolente del percorso intellettuale
dell’italiano medio contemporaneo. Rifacendosi alla grande tradizione dei
maestri italiani, De Sica, Germi, Eduardo, ma anche Fellini nello splendido
finale onirico, il regista conferma tutte le sue notevoli qualità di narratore
di razza, probabilmente il migliore nel panorama odierno del nostro cinema,
firmando un’opera estremamente personale, lucida, caustica, anticonformista,
che affonda le sue radici in quel florido e variopinto sottobosco che è il
proletariato napoletano di strada. Un’opera che parte come una graffiante
satira caricaturale, per poi sfociare in un apologo potente, di agghiacciante
simbologia astratta, sulla perdita di identità provocata dalla società dello
spettacolo televisivo, che, con le sue logiche “usa e getta” ed il suo miraggio
di facili scorciatoie per il successo, ha annichilito la coscienza collettiva.
Lo sguardo del regista è, come sempre, benevolo verso i suoi protagonisti,
ritratti come degli imbelli tanto maldestri quanto teneri, ed il punto di forza
dell’opera risiede nel fertile contrasto tra sogno e realtà, nelle paradossali evasioni
fantastiche, di suggestione pirandelliana, di Luciano, egregiamente
interpretato dal non professionista Aniello Arena, condannato per gravi crimini
di camorra e prestato al cinema per l’occasione. Tutta la seconda parte
dell’opera diventa un viaggio, con tratti da incubo, nella personalità
disturbata di Luciano, ovvero il moderno fruitore di prodotti televisivi di
largo consumo, la cui tragica mutazione è solamente l’apice di una
teledipendenza che, per molti, è il pane quotidiano e che conduce ad un
cortocircuito esistenziale, lo smarrimento dei confini tra oggettivo e
soggettivo, nella ricerca disperata di poter salire, anche solo per pochi
minuti, sul grande carrozzone viaggiante dello spettacolo, fiera di vanità e di
illusioni, emblema di una generazione smarrita e priva di prospettive, che
ricerca la fama in vacui modelli di massa. Chi ha accusato l’opera di essere
arrivata in ritardo, ovvero quando le luci sul fenomeno dei Reality show si
erano già spente da tempo, non ne ha colto il tagliente senso generalista della
denuncia: Reality non è un film sul
“Grande Fratello”, ma sull’inerzia culturale della società moderna, che si
nutre, avidamente, di futili sogni preconfezionati da altri, per colmare un
vuoto ideologico profondo, figlio di fallimenti lontani, di ideologie barattate
con il benessere materiale, di disillusioni antiche, di cui siamo tutti,
indistintamente, complici o colpevoli. Il film è stato premiato al Festival di
Cannes con il Gran Premio Speciale della Giuria, presieduta da Nanni Moretti.
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