martedì 24 febbraio 2015

Reality (Reality, 2012) di Matteo Garrone

Luciano è un pescivendolo napoletano che trascorre le sue giornate tra lavoro saltuario, piccole truffe, una famiglia pittoresca ed ingombrante e la sua naturale carica di simpatia e loquacità, che lo spinge ad improvvisate “esibizioni” davanti ai clienti della pescheria. Spinto da familiari e conoscenti, partecipa ai provini per il reality televisivo “Grande Fratello” e, da quel momento, la sua vita cambia. Il nostro entra in una patologica spirale ossessiva, nell’attesa della fatidica chiamata, e non riuscirà più a distinguere la realtà dalla fantasia. Grottesca commedia di costume dagli accenti tragici, mirabile nella messa in scena ambientale, nei personaggi stralunati, patetici figli illegittimi della società dell’immagine, della tv spazzatura e della deriva morale e culturale dei nostri tempi. Sospeso abilmente tra il kitsch più greve e la geniale invenzione visiva, è un dramma surreale di appariscente antirealismo in cui si ride, amaramente, e si partecipa, nella più cupa seconda parte, all’involuzione interiore del protagonista, emblema dolente del percorso intellettuale dell’italiano medio contemporaneo. Rifacendosi alla grande tradizione dei maestri italiani, De Sica, Germi, Eduardo, ma anche Fellini nello splendido finale onirico, il regista conferma tutte le sue notevoli qualità di narratore di razza, probabilmente il migliore nel panorama odierno del nostro cinema, firmando un’opera estremamente personale, lucida, caustica, anticonformista, che affonda le sue radici in quel florido e variopinto sottobosco che è il proletariato napoletano di strada. Un’opera che parte come una graffiante satira caricaturale, per poi sfociare in un apologo potente, di agghiacciante simbologia astratta, sulla perdita di identità provocata dalla società dello spettacolo televisivo, che, con le sue logiche “usa e getta” ed il suo miraggio di facili scorciatoie per il successo, ha annichilito la coscienza collettiva. Lo sguardo del regista è, come sempre, benevolo verso i suoi protagonisti, ritratti come degli imbelli tanto maldestri quanto teneri, ed il punto di forza dell’opera risiede nel fertile contrasto tra sogno e realtà, nelle paradossali evasioni fantastiche, di suggestione pirandelliana, di Luciano, egregiamente interpretato dal non professionista Aniello Arena, condannato per gravi crimini di camorra e prestato al cinema per l’occasione. Tutta la seconda parte dell’opera diventa un viaggio, con tratti da incubo, nella personalità disturbata di Luciano, ovvero il moderno fruitore di prodotti televisivi di largo consumo, la cui tragica mutazione è solamente l’apice di una teledipendenza che, per molti, è il pane quotidiano e che conduce ad un cortocircuito esistenziale, lo smarrimento dei confini tra oggettivo e soggettivo, nella ricerca disperata di poter salire, anche solo per pochi minuti, sul grande carrozzone viaggiante dello spettacolo, fiera di vanità e di illusioni, emblema di una generazione smarrita e priva di prospettive, che ricerca la fama in vacui modelli di massa. Chi ha accusato l’opera di essere arrivata in ritardo, ovvero quando le luci sul fenomeno dei Reality show si erano già spente da tempo, non ne ha colto il tagliente senso generalista della denuncia: Reality non è un film sul “Grande Fratello”, ma sull’inerzia culturale della società moderna, che si nutre, avidamente, di futili sogni preconfezionati da altri, per colmare un vuoto ideologico profondo, figlio di fallimenti lontani, di ideologie barattate con il benessere materiale, di disillusioni antiche, di cui siamo tutti, indistintamente, complici o colpevoli. Il film è stato premiato al Festival di Cannes con il Gran Premio Speciale della Giuria, presieduta da Nanni Moretti.

Voto:
voto: 4/5

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