Dopo
il folgorante primo capitolo, prosegue la storia di vendetta della “sposa”, di
cui adesso, finalmente conosceremo il vero nome: Beatrix Kiddo. Diviso in un
prologo, un epilogo e cinque capitoli (Massacro
ai due pini, La tomba solitaria di Paula Schultz, I crudeli insegnamenti di Pai
Mei, Elle e Io, Faccia a faccia) questo secondo atto chiude il cerchio e
ricompone tutti i pezzi del puzzle, pur lasciando un certo amaro in bocca. Se
la prima parte era un omaggio al fulmicotone al cinema violento di Hong Kong,
questa seconda ne sovverte le atmosfere con ambientazioni assolate da “mexican
border”, una fotografia abbacinante e sgranata ed una miriade di citazioni allo
“spaghetti western”, a cominciare dalla colonna sonora che include ben sei
tracce d’annata di Ennio Morricone, tutte estremamente pertinenti al contesto
d’uso. Quello che nel primo film era estro visionario puro, energia incontenibile,
esuberanza stilistica e geniale sperimentazione del linguaggio cinematografico,
qui diventa riflessione intimistica, romanticismo “maledetto”, amarezza di
fondo, capitolazione filosofeggiante di un discorso che, giunto alla chiosa,
non convince del tutto per le svolte narrative e le trovate di sceneggiature
che appaiono un po’ banali ed accomodanti, nel rispetto pedissequo della nuova
mitologia dell’eroina femminile. Da uno come Tarantino era lecito attendersi
qualcosa di più di un epilogo tanto rassicurante e celebrativo. Le sensazioni
di iperdilatazione e ridondanza si fanno qui ben più evidenti, nei lunghi
inserti verbosi, poco ispirati e francamente inutili, intesi unicamente a
riempire gli spazi vuoti, per giustificare la scelta di spezzare la pellicola in
due parti. Ma il film si risolleva ampiamente nei capitoli 2 e 4, che sono
splendidi, in particolare lo scontro corpo a corpo tra le due nemiche bionde,
di una ferocia selvaggia ed inusitata, è un memorabile esempio di azione “pulp”
tarantiniana. Invece il lungo e prolisso capitolo 5, quello tanto atteso della
resa dei conti finale, non ripaga del tutto le attese e non è sicuramente il
massimo dell’imprevedibilità. I personaggi (volutamente) bidimensionali, ma
irresistibili, della prima parte diventano qui delle maschere tragiche, degli
stereotipi da romanzo d’appendice, in cui il solo David Carradine, bravissimo,
riesce veramente ad elevarsi sopra la media in maniera convincente. La
sensazione che sarebbe stato più proficuo avere un film unico, magari di tre
ore e maggiormente equilibrato, diventa qui una certezza. O magari, in
alternativa, meglio ancora un Bill vivo che un secondo atto morto.
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