Vittoria, appena uscita da un’apatica storia
d’amore chiusa nella reciproca indifferenza, incontra il cinico Piero, agente
di borsa, che liquida a sua volta la sua ragazza per farle la corte. Dopo
alcuni giorni Vittoria gli si concede, ma più per evadere dalla tediosa routine
quotidiana che per reale trasporto. I due amanti sembrano “felici” per qualche
giorno, ma poi, dopo essersi dati il consueto appuntamento, decideranno
entrambi di non presentarsi, mettendo fine, stancamente, senza parole nè
struggimento, ad un rapporto già nato male per le profonde differenze
caratteriali e per l’impossibilità di conciliare le rispettive solitudini.
Ultimo e definitivo capitolo della così detta “trilogia della crisi
esistenziale” di Antonioni, dopo L’avventura
e La
notte, è anche l’ultimo film in bianco e nero del regista ferrarese,
come a suggellare il punto conclusivo di una complessa dissertazione teorica, il limite estremo del suo pessimismo elitario. Il regista, coerentemente al suo stile ed alla sua poetica fondata
sulla sospensione emotiva del patos attraverso la dilatazione estenuante dei
tempi, prosegue la sua lucida analisi critica sulla società moderna, sullo
sgretolamento della borghesia italiana, in cui il sempre crescente benessere
economico risulta direttamente proporzionale al senso di vuoto morale, allo
smarrimento esistenziale che, nel cinema radicale di Antonioni, diventa declino
ineluttabile, catastrofe silenziosa, implosione emotiva, apocalisse ideologica.
Portando alla massima esasperazione, sia estetica sia tematica, i concetti già
ampiamente sviscerati nei due precedenti capitoli della trilogia esistenziale,
l’autore arriva ad una sorta di espressionismo astratto, denso di soffocante
alienazione, dove i personaggi sono creature inerti, inermi, alla deriva, che
si muovono stanchi, svogliati, apatici, negli scenari urbani di una Roma
glaciale, distante, quasi sospesa sull’orlo di un’imminente catastrofe sociale.
I due personaggi principali, interpretati da Alain Delon e Monica Vitti, musa e
compagna di vita del regista, sono marionette stranite sospinte dall’inerzia,
ebbre di noia e profondamente disincantate, che consumano amori stanchi senza
alcun coinvolgimento vitale, ma solo per meccanica abitudine, sperando di
sfuggire alla piatta routine quotidiana. Su tutto aleggia l’ombra gravosa della
fine: la fine dell’amore, la fine degli ideali, la fine del genere umano, nella
cornice astratta di una città-proscenio, metaforicamente in bilico tra vita e morte,
obsoleto e futuristico. I dialoghi sono ridotti al minimo, tutto è avvolto da
un silenzio spettrale, da una nebbia invisibile di cupa decadenza che ci
conduce verso la memorabile eclisse finale, di ben dieci minuti, che è uno dei
punti più alti del cinema di Antonioni: i personaggi, infine, scompaiono e
restano solamente i luoghi, gli stessi paesaggi urbani dove questi si
aggiravano e “vivevano” fino a poco prima. Nella lunga panoramica finale
l’autore ci mostra le stesse strade, palazzi, piazze, giardini e fontane, totalmente
deserti, alienanti, senza più personaggi, senza più tracce di vita. Resta solo
il silenzio e la luce abbagliante di un lampione in cui si chiude il più tragico
tra i film dell’autore. Il senso supremo di sconfitta evocato dall’epilogo, che
lasciò sconcertati critica e pubblico, è un atto di solenne coraggio artistico
e di abbacinante potenza simbolica, un silente urlo disperato, la cui roboante
assenza di “rumore” provoca, oggi come allora, vertigine, straniamento,
sgomento. Si può non condividere la visione assolutistica del regista, ma non
se ne può negare l’alta portata concettuale, il sincretismo semantico, in cui
il radicale simbolismo astratto diventa contenuto, materia, senso. Il film fu
premiato al Festival di Cannes con il Premio speciale della Giuria, insieme a Il processo di Giovanna d’Arco di Robert
Bresson.
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