lunedì 2 febbraio 2015

L'eclisse (L'eclisse, 1962) di Michelangelo Antonioni

Vittoria, appena uscita da un’apatica storia d’amore chiusa nella reciproca indifferenza, incontra il cinico Piero, agente di borsa, che liquida a sua volta la sua ragazza per farle la corte. Dopo alcuni giorni Vittoria gli si concede, ma più per evadere dalla tediosa routine quotidiana che per reale trasporto. I due amanti sembrano “felici” per qualche giorno, ma poi, dopo essersi dati il consueto appuntamento, decideranno entrambi di non presentarsi, mettendo fine, stancamente, senza parole nè struggimento, ad un rapporto già nato male per le profonde differenze caratteriali e per l’impossibilità di conciliare le rispettive solitudini. Ultimo e definitivo capitolo della così detta “trilogia della crisi esistenziale” di Antonioni, dopo L’avventura e La notte, è anche l’ultimo film in bianco e nero del regista ferrarese, come a suggellare il punto conclusivo di una complessa dissertazione teorica, il limite estremo del suo pessimismo elitario. Il regista, coerentemente al suo stile ed alla sua poetica fondata sulla sospensione emotiva del patos attraverso la dilatazione estenuante dei tempi, prosegue la sua lucida analisi critica sulla società moderna, sullo sgretolamento della borghesia italiana, in cui il sempre crescente benessere economico risulta direttamente proporzionale al senso di vuoto morale, allo smarrimento esistenziale che, nel cinema radicale di Antonioni, diventa declino ineluttabile, catastrofe silenziosa, implosione emotiva, apocalisse ideologica. Portando alla massima esasperazione, sia estetica sia tematica, i concetti già ampiamente sviscerati nei due precedenti capitoli della trilogia esistenziale, l’autore arriva ad una sorta di espressionismo astratto, denso di soffocante alienazione, dove i personaggi sono creature inerti, inermi, alla deriva, che si muovono stanchi, svogliati, apatici, negli scenari urbani di una Roma glaciale, distante, quasi sospesa sull’orlo di un’imminente catastrofe sociale. I due personaggi principali, interpretati da Alain Delon e Monica Vitti, musa e compagna di vita del regista, sono marionette stranite sospinte dall’inerzia, ebbre di noia e profondamente disincantate, che consumano amori stanchi senza alcun coinvolgimento vitale, ma solo per meccanica abitudine, sperando di sfuggire alla piatta routine quotidiana. Su tutto aleggia l’ombra gravosa della fine: la fine dell’amore, la fine degli ideali, la fine del genere umano, nella cornice astratta di una città-proscenio, metaforicamente in bilico tra vita e morte, obsoleto e futuristico. I dialoghi sono ridotti al minimo, tutto è avvolto da un silenzio spettrale, da una nebbia invisibile di cupa decadenza che ci conduce verso la memorabile eclisse finale, di ben dieci minuti, che è uno dei punti più alti del cinema di Antonioni: i personaggi, infine, scompaiono e restano solamente i luoghi, gli stessi paesaggi urbani dove questi si aggiravano e “vivevano” fino a poco prima. Nella lunga panoramica finale l’autore ci mostra le stesse strade, palazzi, piazze, giardini e fontane, totalmente deserti, alienanti, senza più personaggi, senza più tracce di vita. Resta solo il silenzio e la luce abbagliante di un lampione in cui si chiude il più tragico tra i film dell’autore. Il senso supremo di sconfitta evocato dall’epilogo, che lasciò sconcertati critica e pubblico, è un atto di solenne coraggio artistico e di abbacinante potenza simbolica, un silente urlo disperato, la cui roboante assenza di “rumore” provoca, oggi come allora, vertigine, straniamento, sgomento. Si può non condividere la visione assolutistica del regista, ma non se ne può negare l’alta portata concettuale, il sincretismo semantico, in cui il radicale simbolismo astratto diventa contenuto, materia, senso. Il film fu premiato al Festival di Cannes con il Premio speciale della Giuria, insieme a Il processo di Giovanna d’Arco di Robert Bresson.

Voto:
voto: 4,5/5

Nessun commento:

Posta un commento