Inghilterra,
anni ’30: Sir William McCordle e sua moglie Silvia organizzano un sontuoso
party, con annessa battuta di caccia, nella splendida tenuta di campagna di Gosford
Park. Tra gli altolocati invitati, accompagnati dai rispettivi domestici, ci sono
una contessa, un produttore di Hollywood, un eroe di guerra in pensione e una
star del cinema. Tutto sembra procedere per il meglio, in un’atmosfera “dorata”,
fino a quando il padrone di casa non viene trovato ucciso. La polizia impedisce
a chiunque di lasciare la villa ed avvia una complicata indagine, che farà
emergere molti lati oscuri, celati sotto l’aspetto apparentemente impeccabile
degli ospiti. Sontuoso viaggio di Altman nel cinema in costume, con questo
giallo corale raffinatissimo, di stampo classico (fedele alla tradizione
britannica del “whodunit”) e di stile
teatrale, che però, come sempre con il grande regista americano, è molto più di
ciò che sembra all’apparenza. Sotto la vernice luccicante e la patina aurea, si
nasconde, infatti, un graffiante apologo sui rapporti di classe, sull’ipocrisia
altolocata dei rituali pubblici, che maschera, sotto l’egida di un inamidato
conformismo, relazioni complesse, antichi dissapori, invidie frustranti,
relazioni sessuali. Lo sguardo tagliente dell’autore, grazie ad una caustica
ironia nera, intende dissacrare la falsità di facciata dell’aristocrazia
vittoriana, ma, più in generale, di tutte le
aristocrazie, analizzando, con lucido cinismo, non solo le connivenze tra
membri della stessa classe, ma anche tra i nobili e la servitù, riservando ai
secondi una rappresentazione più mite. Sospendendo, abilmente e sul più bello,
con beffardo dileggio, il giudizio su questo affresco di umana meschinità, il
regista preferisce lasciare l’arduo compito al pubblico, mantenendosi
nell’ombra come un magnifico demiurgo. Lo stile è, a tratti, concitato,
affannoso, la macchina da presa quasi si tuffa tra i personaggi, pedinandoli,
braccandoli, occhio vigile e sopra le parti che ne indaga l’essenza,
costringendoli a svelare la loro vera natura, il lato deplorevole. Rispettando
pienamente l’unità di tempo (un weekend) e di luogo (la principesca tenuta di
campagna), Altman rivela la fragilità del compromesso sociale e la mediocrità
di un mondo rigido, intrappolato in se stesso, condannato alla fraudolenza
morale dalla sua stessa maschera farisea. Dello straordinario consesso di attori,
tutti britannici, citiamo: Maggie Smith, Michael Gambon, Kristin Scott Thomas,
Camilla Rutherford, Tom Hollander, Clive Owen, Helen Mirren, Emily Watson,
Derek Jacobi. Il film ebbe 7 nomination agli Oscar, vincendo solo quello alla
splendida sceneggiatura di Julian Fellowes. Lo straniamento indotto dalle
atmosfere “british”, del tutto
inusuali per il cinema altmaniano, viene prontamente riscattato dalla
perfezione geometrica del meccanismo che, preciso come un orologio, consente
all’autore di muovere sul set ben 36 attori, ripartiti in due emblematici
schieramenti (servi e padroni), con la sapiente leggerezza del deus ex machina. Tra Agatha Christie e
Jean Renoir, tra poliziesco e critica di costume, tra maggiordomi e governanti,
il mattatore è sempre lui: quel geniale “demonio” di nome Robert Altman.
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