mercoledì 11 febbraio 2015

Gosford Park (Gosford Park, 2001) di Robert Altman

Inghilterra, anni ’30: Sir William McCordle e sua moglie Silvia organizzano un sontuoso party, con annessa battuta di caccia, nella splendida tenuta di campagna di Gosford Park. Tra gli altolocati invitati, accompagnati dai rispettivi domestici, ci sono una contessa, un produttore di Hollywood, un eroe di guerra in pensione e una star del cinema. Tutto sembra procedere per il meglio, in un’atmosfera “dorata”, fino a quando il padrone di casa non viene trovato ucciso. La polizia impedisce a chiunque di lasciare la villa ed avvia una complicata indagine, che farà emergere molti lati oscuri, celati sotto l’aspetto apparentemente impeccabile degli ospiti. Sontuoso viaggio di Altman nel cinema in costume, con questo giallo corale raffinatissimo, di stampo classico (fedele alla tradizione britannica del “whodunit”) e di stile teatrale, che però, come sempre con il grande regista americano, è molto più di ciò che sembra all’apparenza. Sotto la vernice luccicante e la patina aurea, si nasconde, infatti, un graffiante apologo sui rapporti di classe, sull’ipocrisia altolocata dei rituali pubblici, che maschera, sotto l’egida di un inamidato conformismo, relazioni complesse, antichi dissapori, invidie frustranti, relazioni sessuali. Lo sguardo tagliente dell’autore, grazie ad una caustica ironia nera, intende dissacrare la falsità di facciata dell’aristocrazia vittoriana, ma, più in generale, di tutte le  aristocrazie, analizzando, con lucido cinismo, non solo le connivenze tra membri della stessa classe, ma anche tra i nobili e la servitù, riservando ai secondi una rappresentazione più mite. Sospendendo, abilmente e sul più bello, con beffardo dileggio, il giudizio su questo affresco di umana meschinità, il regista preferisce lasciare l’arduo compito al pubblico, mantenendosi nell’ombra come un magnifico demiurgo. Lo stile è, a tratti, concitato, affannoso, la macchina da presa quasi si tuffa tra i personaggi, pedinandoli, braccandoli, occhio vigile e sopra le parti che ne indaga l’essenza, costringendoli a svelare la loro vera natura, il lato deplorevole. Rispettando pienamente l’unità di tempo (un weekend) e di luogo (la principesca tenuta di campagna), Altman rivela la fragilità del compromesso sociale e la mediocrità di un mondo rigido, intrappolato in se stesso, condannato alla fraudolenza morale dalla sua stessa maschera farisea. Dello straordinario consesso di attori, tutti britannici, citiamo: Maggie Smith, Michael Gambon, Kristin Scott Thomas, Camilla Rutherford, Tom Hollander, Clive Owen, Helen Mirren, Emily Watson, Derek Jacobi. Il film ebbe 7 nomination agli Oscar, vincendo solo quello alla splendida sceneggiatura di Julian Fellowes. Lo straniamento indotto dalle atmosfere “british”, del tutto inusuali per il cinema altmaniano, viene prontamente riscattato dalla perfezione geometrica del meccanismo che, preciso come un orologio, consente all’autore di muovere sul set ben 36 attori, ripartiti in due emblematici schieramenti (servi e padroni), con la sapiente leggerezza del deus ex machina. Tra Agatha Christie e Jean Renoir, tra poliziesco e critica di costume, tra maggiordomi e governanti, il mattatore è sempre lui: quel geniale “demonio” di nome Robert Altman.

Voto:
voto: 4,5/5

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