venerdì 6 febbraio 2015

Non si uccidono così anche i cavalli? (They Shoot Horses, Don't They?, 1969) di Sydney Pollack

California, anni ’30, durante la Grande Depressione: coppie di sventurati senza lavoro e senza prospettive partecipano ad una maratona di ballo, organizzata dal losco Rocky sul molo di Santa Monica. In palio ci sono 1500 dollari ma le regole sono rigide: vincerà il premio la coppia che resisterà fino alla fine, senza mai smettere di ballare, a parte brevi pause per rifocillarsi. Tra i tanti partecipanti, molti dei quali accettano solo per assicurarsi il vitto per qualche giorno, ci sono la sfiorita Gloria e il curioso Robert, che finiscono in coppia per caso. Dopo oltre 40 giorni massacranti, i pochi rimasti in gioco sono allo stremo: chi è sfinito, chi è disperato, chi, addirittura, ci lascia la pelle. Ma quando Gloria scopre che dietro l’agognato premio c’è una truffa, affranta dall’ennesima sconfitta, chiede al suo compagno di spararle, come si fa con un cavallo che ha la zampa rotta. Dal romanzo omonimo di Horace McCoy, Pollack ha tratto il suo film più cupo e pessimistico, in forma di crudo apologo sul cinismo e sulla disperazione, in cui la gara da ballo diventa crudele metafora del “gioco” della vita, un’aspra lotta contro i propri simili in cui sopravvivono i più forti, i più scaltri o i più fortunati. La danza, che nel musical hollywoodiano è sempre stata sinonimo di grazia ed eleganza, diventa qui una perfida tortura, il segno di un abbrutimento collettivo profondo, perché radicato nella miseria e nell’afflizione, emblema di un paese allo sbando nel periodo più drammatico della sua breve storia. La ricostruzione storico ambientale è perfetta e le interpretazioni sono eccellenti, in particolare quelle della protagonista, Jane Fonda, e di Gig Young, premiato con l’Oscar, nel ruolo dell’infido organizzatore della gara. L’autore tratteggia un affresco claustrofobico del clima di quegli anni amari, con l’esercito di reietti pronti a tutto pur di migliorare la propria indigenza ed il cinico pubblico assetato di sangue, aizzato dal perfido imbonitore Rocky, in una lungimirante anticipazione del triste spettacolo del dolore, che oggi è il pane quotidiano dei mass media. Un po’ indebolito da un impianto “a tesi” che non concede via d’uscita, resta un ottimo esempio di cinema di denuncia, coraggioso e intransigente. La pellicola ebbe nove candidature agli Oscar del 1970, portando a casa solo il premio al non protagonista.

Voto:
voto: 4/5

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