California, anni ’30, durante la Grande Depressione:
coppie di sventurati senza lavoro e senza prospettive partecipano ad una
maratona di ballo, organizzata dal losco Rocky sul molo di Santa Monica. In
palio ci sono 1500 dollari ma le regole sono rigide: vincerà il premio la
coppia che resisterà fino alla fine, senza mai smettere di ballare, a parte
brevi pause per rifocillarsi. Tra i tanti partecipanti, molti dei quali
accettano solo per assicurarsi il vitto per qualche giorno, ci sono la sfiorita
Gloria e il curioso Robert, che finiscono in coppia per caso. Dopo oltre 40
giorni massacranti, i pochi rimasti in gioco sono allo stremo: chi è sfinito,
chi è disperato, chi, addirittura, ci lascia la pelle. Ma quando Gloria scopre
che dietro l’agognato premio c’è una truffa, affranta dall’ennesima sconfitta,
chiede al suo compagno di spararle, come si fa con un cavallo che ha la zampa
rotta. Dal romanzo omonimo di Horace McCoy, Pollack ha tratto il suo film più
cupo e pessimistico, in forma di crudo apologo sul cinismo e sulla disperazione,
in cui la gara da ballo diventa crudele metafora del “gioco” della vita, un’aspra
lotta contro i propri simili in cui sopravvivono i più forti, i più scaltri o i
più fortunati. La danza, che nel musical hollywoodiano è sempre stata sinonimo
di grazia ed eleganza, diventa qui una perfida tortura, il segno di un
abbrutimento collettivo profondo, perché radicato nella miseria e nell’afflizione,
emblema di un paese allo sbando nel periodo più drammatico della sua breve
storia. La ricostruzione storico ambientale è perfetta e le interpretazioni
sono eccellenti, in particolare quelle della protagonista, Jane Fonda, e di Gig
Young, premiato con l’Oscar, nel ruolo dell’infido organizzatore della gara.
L’autore tratteggia un affresco claustrofobico del clima di quegli anni amari,
con l’esercito di reietti pronti a tutto pur di migliorare la propria indigenza
ed il cinico pubblico assetato di sangue, aizzato dal perfido imbonitore Rocky,
in una lungimirante anticipazione del triste spettacolo del dolore, che oggi è
il pane quotidiano dei mass media. Un po’ indebolito da un impianto “a tesi”
che non concede via d’uscita, resta un ottimo esempio di cinema di denuncia,
coraggioso e intransigente. La pellicola ebbe nove candidature agli Oscar del
1970, portando a casa solo il premio al non protagonista.
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