mercoledì 18 febbraio 2015

L'odio (La Haine, 1995) di Mathieu Kassovitz

Giorni di ordinario squallore in una sordida banlieue parigina: Vinz, ebreo e bianco, Said, maghrebino, e Hubert, nero, sono tre sbandati in pena per il giovane Abdel, un loro compagno in fin di vita dopo un brutale pestaggio subito dalla polizia. Il violento Vinz ha preso la pistola di un agente durante gli scontri di strada contro le forze dell’ordine, che hanno visto soccombere il malcapitato Abdel, ed intende usarla per la sua vendetta. Fulminante e feroce opera di denuncia di Kassovitz sul degrado urbano delle periferie metropolitane francesi, teso e lucido, brutale e spietato, impaginato in un bianco e nero allucinato che non concede alibi. Abbraccia la logica brutale e manichea degli alienati protagonisti, “noi contro loro”, senza compiacimenti, senza enfasi retorica, senza giudizio morale, senza condanna né assoluzione, senza conformismo sociologico, ma limitandosi ad un asettico realismo che lascia atterriti e che ci immerge completamente nel mondo barbaro della banlieue. Con numerosi omaggi alla Nouvelle Vague ed al cinema americano del primo Scorsese, l’autore ci consegna un intenso e lucido spaccato sociale con la distanza della cronaca e l’adesione coraggiosa di chi intende andare al cuore del problema, anche a costo di sporcarsi le mani. L’alto rigore stilistico, l’estrema verosimiglianza delle ambientazioni, la durezza dei temi trattati senza filtri, i dialoghi selvaggi e le eccellenti interpretazioni di un cast perfetto, in cui svetta uno straordinario Vincent Cassel, in una performance di alto vigore fisico ed emotivo, rendono questo film un manifesto scioccante e scomodo di una gioventù allo sbando, ma anche di un grave problema sociale che il potere evita accuratamente di affrontare in modo serio. Il montaggio incessante, che procede a ritmo del rap eversivo che aleggia nella banlieue, ed i movimenti di macchina frenetici, garantiscono la perfetta rappresentazione di un universo ai margini, sotterraneo rispetto alla borghesia dei quartieri alti, nel suo procedere a velocità diversa, con una costante accelerazione iperattiva, rispetto al resto di quel mondo verso cui prova disprezzo. La splendida metafora, alla base del film, dell’uomo che cade da un palazzo di 50 piani e che, ad ognuno di essi, si ripete “tutto bene fino a qui”, è quella di una società di emarginati condannati a precipitare, costretti a vivere la loro vita, inevitabilmente segnata, a brevi tappe fittizie, senza domani, nella generale indifferenza della gente “perbene” che preferisce voltarsi dall’altra parte. Il finale ambiguo e sospeso è un ulteriore valore aggiunto, che dimostra il carisma e la personalità del regista nell’affrontare un tema tanto scottante, col piglio del grande narratore, che non si pone né su un piedistallo né nel fango dei suoi protagonisti e che distribuisce vizi e virtù da entrambi i lati della barricata. Questa controversa opera di culto degli anni ’90 fu insignita del premio alla migliore regia al Festival del Cinema di Cannes. Nessun altro film ha esplorato la realtà amara delle banlieue con altrettanto rigore ed equilibrio, tramutando la rabbia dei protagonisti in corrosiva denuncia sociale.

Voto:
voto: 4/5

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