Giorni
di ordinario squallore in una sordida banlieue
parigina: Vinz, ebreo e bianco, Said, maghrebino, e Hubert, nero, sono tre
sbandati in pena per il giovane Abdel, un loro compagno in fin di vita dopo un
brutale pestaggio subito dalla polizia. Il violento Vinz ha preso la pistola di
un agente durante gli scontri di strada contro le forze dell’ordine, che hanno
visto soccombere il malcapitato Abdel, ed intende usarla per la sua vendetta.
Fulminante e feroce opera di denuncia di Kassovitz sul degrado urbano delle
periferie metropolitane francesi, teso e lucido, brutale e spietato, impaginato
in un bianco e nero allucinato che non concede alibi. Abbraccia la logica
brutale e manichea degli alienati protagonisti, “noi contro loro”, senza
compiacimenti, senza enfasi retorica, senza giudizio morale, senza condanna né
assoluzione, senza conformismo sociologico, ma limitandosi ad un asettico
realismo che lascia atterriti e che ci immerge completamente nel mondo barbaro
della banlieue. Con numerosi omaggi
alla Nouvelle Vague ed al cinema
americano del primo Scorsese, l’autore ci consegna un intenso e lucido spaccato
sociale con la distanza della cronaca e l’adesione coraggiosa di chi intende
andare al cuore del problema, anche a costo di sporcarsi le mani. L’alto rigore
stilistico, l’estrema verosimiglianza delle ambientazioni, la durezza dei temi
trattati senza filtri, i dialoghi selvaggi e le eccellenti interpretazioni di
un cast perfetto, in cui svetta uno straordinario Vincent Cassel, in una
performance di alto vigore fisico ed emotivo, rendono questo film un manifesto
scioccante e scomodo di una gioventù allo sbando, ma anche di un grave problema
sociale che il potere evita accuratamente di affrontare in modo serio. Il
montaggio incessante, che procede a ritmo del rap eversivo che aleggia nella banlieue, ed i movimenti di macchina
frenetici, garantiscono la perfetta rappresentazione di un universo ai margini,
sotterraneo rispetto alla borghesia dei quartieri alti, nel suo procedere a
velocità diversa, con una costante accelerazione iperattiva, rispetto al resto
di quel mondo verso cui prova disprezzo. La splendida metafora, alla base del
film, dell’uomo che cade da un palazzo di 50 piani e che, ad ognuno di essi, si
ripete “tutto bene fino a qui”, è quella di una società di emarginati
condannati a precipitare, costretti a vivere la loro vita, inevitabilmente
segnata, a brevi tappe fittizie, senza domani, nella generale indifferenza
della gente “perbene” che preferisce voltarsi dall’altra parte. Il finale
ambiguo e sospeso è un ulteriore valore aggiunto, che dimostra il carisma e la personalità
del regista nell’affrontare un tema tanto scottante, col piglio del grande
narratore, che non si pone né su un piedistallo né nel fango dei suoi
protagonisti e che distribuisce vizi e virtù da entrambi i lati della
barricata. Questa controversa opera di culto degli anni ’90 fu insignita del
premio alla migliore regia al Festival del Cinema di Cannes. Nessun altro film
ha esplorato la realtà amara delle banlieue
con altrettanto rigore ed equilibrio, tramutando la rabbia dei protagonisti in corrosiva
denuncia sociale.
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