Il regista Eddie Israel sta girando un film ("Mother of Mirrors") che racconta di una coppia borghese in profonda crisi. Gli attori sono Sarah Jennings (che interpreta Claire) e Francis Burns (che interpreta Russell). Nel copione Claire e Russell hanno un rapporto a base di eccessi, tra droga, alcool e sesso promiscuo. Ma lei è stanca, vuole uscirne e dedicarsi a una nuova fase della sua vita, spirituale e religiosa. Russell non ci sta e cerca in tutti i modi di riportarla nel precedente gorgo di lussuria. Il rapporto inizia a degenerare nella violenza. Fuori dal set Sarah e Francis hanno davvero una relazione sessuale e l'immedesimazione nei rispettivi personaggi inizia ad assumere connotazioni realistiche e personali. Ma anche Eddie appare coinvolto oltre misura nel film che sta girando, s'invaghisce di Sarah (o di Claire?) e lo strano "gioco" a tre diventa qualcosa di morboso, di intimo e di perverso. Al punto in cui si trovano comincia a diventare difficile distinguere la realtà dalla finzione. Il nono lungometraggio di Abel Ferrara, scritto dal fedelissimo Nicholas St. John, è un efferato psico-dramma, di fosca furia iconoclasta e di perversa malia oscura, che solo in apparenza parla del mestiere di fare cinema e delle sue difficoltà. Chi conosce il regista (o il suo alter-ego alla penna, St. John) sa perfettamente che quella è solo la patina esteriore, il MacGuffin artificioso che serve ad introdurre i veri concetti alla base dell'opera che stanno a cuore all'autore del Bronx: i peccaminosi anfratti bui dell'animo umano messi in contrasto con il desiderio di ascesi e di catarsi, due pulsioni uguali e contrarie che sono entrambe tipiche della nostra natura, che spesso convivono, o si annullano, o combattono tra loro, generando tutto quel travaglio interiore che generalmente chiamiamo vita. Qui però il conflitto di istinti si raddoppia e si complica, perchè si riflette in uno specchio (non a caso il titolo del film nel film è "Mother of Mirrors") che è quello del cinema, che aggiunge una dimensione in più, causando un labirintico meccanismo di transfert e di sdoppiamenti di identità, creando l'ambigua confusione tra la fiction e la realtà, le persone e i personaggi. Se poi si pensa al fatto che il regista Eddie Israel di Harvey Keitel potrebbe essere una naturale estensione di Abel Ferrara al di là della "quarta parete", tutto diventa maledettamente più complesso con l'inserimento di un ulteriore livello dimensionale, ma anche tremendamente affascinante. Come sempre il cinema di Ferrara è diretto, viscerale, disturbante, maledetto, brutalmente geniale, appassionato e appassionante, denso di estremismi, di tragiche confessioni, di brucianti sconfitte, di insolenti depravazioni e di disperati tentativi di redenzione. In quest'opera groviglio, a volte troppo manieristica e auto-indulgente, non è facile stabilire chi sia chi o a chi succeda cosa, per la costante sovrapposizione tra l'attore e il suo personaggio, con il regista-voyeur-spettatore che a sua volta diventa parte attiva dell'azione, ma è proprio in questo inviluppo di suggestioni che risiede il guanto di sfida concettuale e la bellezza sfuggente dell'opera. Nel cast, che annovera Harvey Keitel, Madonna e James Russo, il più bravo è il primo, ma anche la celebre pop-star riesce ad essere più credibile del solito e decisamente sopra la sua (solitamente bassa) media interpretativa. Il titolo originale si riferisce ad un'espressione tipica del gioco dei dadi, per indicare la mano perdente e sfortunata. La pellicola è stata anche distribuita con il titolo alternativo di Dangerous Game. Il primo montaggio del film (che nessuno ha mai visto) durava addirittura 3 ore e 50 minuti, poi ridotti ai 108 minuti della versione integrale, uscita in sala con un divieto ai minori di 18 anni.
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