Nel 1889 l'arciduca Rodolfo d'Asburgo, erede al trono imperiale austro-ungarico, si ritira in una grande residenza di campagna insieme alla sua amante Maria Vetsera, la sua sorellastra Sofia, il suo fratellastro ed un folto gruppo di cortigiane, a cui ben presto si uniscono anche gli artisti di un circo fatti chiamare apposta per l'occasione. Rodolfo ha un difficile rapporto conflittuale con il padre, l'imperatore Francesco Giuseppe I, non ne riconosce l'autorità e intende sbeffeggiarlo provocando uno scandalo a corte. Uno dei principali motivi dello scontro tra i due è che Rodolfo detesta la moglie che il padre gli ha imposto per motivi politici, mentre il sovrano vuole porre fine alla relazione tra il giovane e la sua amante. Per diversi giorni Rodolfo e i suoi invitati si abbandonano, senza alcun ritegno, in sfrenate attività orgiastiche, ballano nudi nel giardino della villa e si accoppiano tra di loro vicendevolmente, in rapporti anche omosessuali, a prescindere dal grado di parentela. L'imperatore cerca in tutti i modi di riportare il suo erede alla ragione ed invia appositamente un generale del suo esercito per dargli un ultimatum. Ma il militare viene fatto prigioniero e umiliato in tutti i modi, anche sessualmente. La risposta imperiale a questo ennesimo affronto sarà violenta e terribile. Questo celebre film "scandalo" degli anni '70, scritto da Giovanna Gagliardo e diretto dall'ungherese Miklós Jancsó, è una coproduzione italo-slava che rilegge in chiave erotico-provocatoria un evento storico controverso noto come i "fatti di Mayerling". Nel castello di Mayerling, nel gennaio 1889, l'erede al trono asburgico Rodolfo e la sua amante diciassettenne Maria furono trovati morti in circostanze mai del tutto chiarite. La tesi ufficiale del duplice suicidio, deciso dalla coppia come atto di ribellione verso l'imperatore, ha sempre lasciato una serie di dubbi, facendo nascere svariate dicerie al riguardo. Quella proposta dal film, apertamente licenziosa e sovversiva, si pone sia come apologo critico sulla proverbiale immoralità degli aristocratici, sia come utilizzo metaforico del sesso inteso quale atto supremo di libertà individuale e, quindi, di ribellione (non violenta ma goduriosa) nei confronti del potere. Diciamo subito che questo approccio concettuale, assolutamente non nuovo negli anni '70, era quasi il "pane quotidiano" di autori come Pasolini, Borowczyk o Ken Russell, che sono riusciti ad utilizzarlo in maniera molto più efficace e corrosiva di quanto fatto da Jancsó in questa sua opera. Alla sua uscita nelle sale la pellicola (che venne presentata per la prima volta in concorso al Festival di Cannes) destò enorme scalpore, fu sequestrata diverse volte e sia il regista che la sceneggiatrice subirono addirittura un processo per oscenità e offesa della morale pubblica, in cui vennero condannati in primo grado e poi assolti nei successivi gradi di giudizio. Quello che indignò la censura e i benpensanti furono soprattutto le scene di incesto, gli accoppiamenti omosessuali maschili e la celebre sequenza in cui il messo imperiale è costretto ad essere posseduto sessualmente da un ermafrodita (che in realtà era l'attrice Teresa Ann Savoy a cui venne applicato un falso pene posticcio). Visto oggi il film appare più noioso che trasgressivo, una lunga sequela goliardica di balli, ozi, corpi nudi e orge sullo sfondo di una natura rigogliosa; un pittoresco e frenetico carosello bucolico dannunziano, che celebra la libera ricerca del piacere fisico senza nessuna remora. Una formula che dopo un po' stanca e finisce per diventare un meccanico atto figurativo autoreferenziale, quasi inerte nella sua ripetizione di didascalie che ruotano di continuo su sé stesse. Nel cast, al fianco del protagonista Lajos Balázsovits, citiamo Pamela Villoresi, Laura Betti (protagonista di un paio di scene che fecero un certo clamore) ed un'ancora sconosciuta Ilona Staller (che non era ancora diventata la "Cicciolina nazionale").
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