Giulietta,
signora cattolica dell’alta borghesia romana, mentre trascorre una vacanza
estiva a Fregene, sente che il suo matrimonio con Giorgio, apparentemente
impeccabile, sta andando in pezzi a causa della cortese indifferenza di lui,
che, probabilmente, la tradisce con altre donne. Silentemente disperata la
donna si affida ad un veggente indiano che la fa partecipare a delle sedute
spiritiche e per lei inizia così una profonda crisi d’identità, tra fantasmi di
un mondo immaginario, incubi dal passato, delusioni esistenziali, tentazioni
lussuriose, sogni ad occhi aperti e tentativi di dialogo con il marito e la sua
amante. Alla fine Giulietta saprà trovare una propria dimensione. Dopo il suo
capolavoro assoluto 8½, in cui l’autore ha tracciato una visionaria
psicoanalisi onirica di sè stesso, Fellini prende adesso in esame il mondo
interiore della moglie, Giulietta Masina, dando vita ad una sorta di versione
al femminile del film precedente, che sarebbe stata probabilmente più
apprezzabile se non fosse stato preceduta da un modello così eccezionale,
rispetto al quale segna un inevitabile regresso artistico e creativo. Le
fantasie di una casalinga benestante turbata dal tradimento del marito,
ossessionata dai ricordi di un’educazione cattolica repressiva, tentata da
pulsioni di emancipazione ma incapace di realizzarle, risultano inadeguate nel
confronto con il complesso ordito psicoanalitico di 8½ che,
non a caso, è unanimemente collocato tra i massimi capolavori della Storia del
Cinema mondiale. Formalmente apprezzabile, specie per l’uso del colore
(adottato in precedenza solo per l’episodio di Boccaccio ’70) e per alcune sequenze di acceso onirismo, il film
sembra più il ripiegamento dell’autore in un autobiografismo già esplorato con
maggiore originalità e compiutezza, che un’opera di autentica ispirazione, con
il sospetto aggiuntivo di un patetico tentativo di risarcimento artistico verso
la moglie Giulietta Masina, musa di passati successi come La strada e Le notti di Cabiria, ma del tutto esclusa dai trionfi di La dolce vita e 8½. Purtroppo la stessa attrice si rivela molto
a disagio (se non addirittura inadatta) nel ruolo, e, non ultimo, l’opera manca
del fascino del film nel film, che contribuiva all’intrigante gioco di specchi
di 8½. I momenti visivamente geniali sono
comunque presenti e l’estro figurativo ricorda, a tratti, quello dei tempi
migliori, ma la sensazione generale che emerge è quella di un film fiacco,
languido e confuso, con una protagonista non all’altezza del compito. Molto
brava invece Sandra Milo (sempre a suo agio nei panni della donna lussuriosa),
che venne premiata, per l’occasione, con il Nastro d’Argento. Nonostante
un’accoglienza critica tiepida, il film ottenne comunque due candidature agli
Oscar: per le scenografie e i costumi del bravo Piero Gherardi.
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