Karin
è una casalinga svedese, madre di due figli, sposata con un neurologo e
apparentemente felice. Per sfuggire alla noia del quotidiano si lascia
coinvolgere in una relazione clandestina con un giovane archeologo americano,
David, che lavora vicino alla sua casa dove è stata scoperta un’antica effige in
legno della Madonna. Ma il rapporto tra i due amanti è tempestoso perché David,
di origine ebrea e scampato per miracolo all’Olocausto, è un uomo tormentato e
pieno di conflitti interiori. Quando il marito di Karin scopre il tradimento
mette la donna di fronte ad una scelta: restare con lui o andar via con David.
Primo film di Bergman realizzato con fondi americani (a causa dei problemi dell’autore
con il fisco svedese), è un melodramma “da camera” che, attraverso un banale triangolo
sentimentale, verte sul tema (molto attuale per i tempi) della liberazione e
dell’emancipazione femminile. L’indagine psicologica dell’universo femminile è,
stavolta, meno profonda e problematica del solito e l’uso di soluzioni visive
che indulgono nel kitsch lasciarono altamente
perplessi i critici ed i fans del grande
regista. La “contaminazione” produttiva americana non ha giovato ad un film
fragile e irrisolto, in cui persino il cast (Elliott Gould, Bibi Andersson e
Max von Sydow) appare meno brillante e incisivo del solito. La sensazione è
quella di un’opera stanca, svogliata e confusa, nata fin dall’inizio sotto una
cattiva stella. Il commento musicale pop che ammicca a quello (imitatissimo) di
Love Story completa il quadro
decisamente imbarazzante. E’, probabilmente, il peggiore tra i film di Bergman,
insieme ai primi acerbi lungometraggi. Un film che non riesce mai a raggiungere
la profondità tematica, il rigore stilistico, l’estro figurativo, la tensione
psicologica, il lirismo paesaggistico e la capacità di introspezione che sono
da sempre accostabili all’aggettivo bergmaniano.
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