Peter
Egermann è un borghese benestante, benvoluto da tutti ed apparentemente felice.
Un giorno si macchia di un delitto orrendo, lo stupro e l’omicidio di una
prostituta, e viene internato in un manicomio criminale. Tutti coloro che lo
conoscono non riescono a spiegarsi i motivi dell’accaduto, ma il regista ce lo
rivela, progressivamente, attraverso una serie di inserti narrativi autonomi
(preceduti da una didascalia) che ci illustrano una sequenza non lineare di
eventi antecedenti al delitto, che portano alla luce una personalità totalmente
diversa da quella “ufficiale” del protagonista. L’ultimo film “tedesco” di Bergman
è un’opera austera e reticente, un’analisi gelida e frammentata di una mente
umana che rinnega il metodo di indagine hitchcockiano per un approccio
felicemente ribelle, che si esplica anche dal punto di vista formale: il
prologo e l’epilogo a colori e tutto il corpo del film in un asettico bianco e
nero. Diviso in brevi capitoli, cronologicamente sfalsati, il film aspira alla
secchezza del referto clinico più che allo scandaglio psicologico, alterna le
testimonianze di diversi personaggi, tutti programmaticamente tormentati e
nevrotici, e si fa seguire con estremo interesse, salvo poi aggrovigliarsi nel
finale. Il tema centrale è ancora quello della condizione umana e del contrasto
tra la facciata impeccabile e gli oscuri abissi interiori, con la “novità” di
un protagonista principale maschile, per quanto la figura della moglie Katarina
abbia una sua rilevanza drammaturgica. Un’altra novità è la presenza di un cast
tutto tedesco e la rinuncia a tutte le “muse” cinematografiche del regista (ma
il fido Sven Nykvist alla fotografia è, come sempre, immancabile). E’ un film
indubbiamente affascinante e concettualmente stimolante, che paga il dazio di
un’eccessiva cervelloticità nello sviluppo narrativo. Non è essenziale in un
ideale itinerario bergmaniano ma merita comunque la riscoperta.
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