Dopo
la fine della seconda guerra mondiale tre reduci tornano a casa, ma il tanto
agognato rientro non sarà né facile né felice come previsto. Homer Parrish,
invalido per aver perso entrambe le mani, sopporta a fatica l’atteggiamento
pietoso della fidanzata, che cerca di proteggerlo dagli sguardi indiscreti
della gente. Al Stephenson è scosso da profonde crisi di coscienza e,
nonostante l’affetto dei familiari e la ripresa del suo vecchio lavoro in
banca, non riesce più ad avere rapporti sereni con gli altri. Fred Derry, già
provato dagli orrori del conflitto, deve fare i conti con il tradimento della
moglie che lo ha prontamente rimpiazzato. Dal romanzo “Glory for me” di MacKinley Kantor, Wyler ha tratto uno strepitoso
dramma sentimentale, lucido, amaro e struggente, la cui capacità di trattare
(per la prima volta a questi livelli) il problema dei reduci bellici (spesso
ignorato o sottovalutato) ha fatto epoca, segnando la nascita di un nuovo
nobile modello di riferimento nella storia del cinema americano. Alla sua
uscita spiazzò e commosse il pubblico, ma scosse le coscienze e accese i
riflettori su una realtà scomoda e difficile, quasi sempre relegata nel
doloroso silenzio delle famiglie coinvolte. Nonostante qualche passaggio
accademico e qualche prolissità, è un film forte, importante, complesso, fiero
e giusto, abilissimo nel mantenere l’equilibrio tra compassione e indignazione.
Memorabile la fotografia di Gregg Toland, che si avvale di specchi e superfici
riflettenti per suggerire una lettura introspettiva delle immagini, a diversi
livelli di emotività. Eccellente il cast nel suo insieme con Myrna Loy, Fredric
March, Dana Andrews, Michael Hall, Teresa Wright e Virginia Mayo. Vinse sette
oscar “pesanti”: miglior film, regia, Fredric March attore protagonista, Harold
Russell attore non protagonista, sceneggiatura, montaggio e colonna sonora. E’
stato uno dei primi film hollywoodiani a mettere l’America faccia a faccia con
il lato oscuro del suo apparente (e sbandierato) benessere sociale.
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