lunedì 22 maggio 2017

L’ora del lupo (Vargtimmen, 1966) di Ingmar Bergman

Johan è un pittore nevrotico e misantropo che vive su una piccola isola semideserta, in condizioni di voluto isolamento, insieme a sua moglie Alma. L’uomo ha il terrore delle ore notturne ed è afflitto da terribili visioni che lo spaventano e lo ossessionano e che il nostro annota puntualmente in un diario con estrema dovizia di particolari macabri. Alma cerca in tutti i modi di aiutarlo ma, un giorno, dopo una festa in un castello, inizia ad avere anche lei le stesse allucinazioni di Johan. Inquietante dramma psicologico dai risvolti horror, liberamente ispirato al manoscritto teatrale “Gli antropofagi”, scritto dallo stesso Bergman nel 1962, è un’opera cupa, tortuosa e personale, densa di numerosi elementi autobiografici. Come indicato esplicitamente dallo stesso autore (“Ho osato fare alcuni passi, ma non ho percorso tutta la strada”) il film sembra una sorta di taccuino personale, onirico e simbolico, in cui prendono vita, attraverso i “demoni” di Johan, i fantasmi interiori del regista in un periodo particolarmente sofferto della propria vita. Le stesse ambientazioni (la pellicola fu girata nella riserva naturale di Skåneleden, a Hovs Hallar) ricordano molto quelle dell’isola di Fårö, dove Bergman amava esiliarsi per vivere lunghi periodi lontano dal mondo. Come spiegato chiaramente dal protagonista, l’ora del lupo è quella fase terminale della notte in cui l’alba incombe, il sonno è nella sua fase più profonda e gli incubi personali assumono la loro forma più terribile e pregnante. Le stranianti immagini incorniciate dalla spettrale fotografia in bianco e nero di Sven Nykvist sono di tetra crudezza e le atroci presenze che divorano l’animo del protagonista danno forma mostruosa alle ossessioni dell’autore: i traumi infantili, la solitudine esistenziale, il fallimento dei rapporti di coppia, il senso di inadeguatezza rispetto alla vita. Magnetici ed intensi i due protagonisti, Max von Sydow e Liv Ullmann, per un film troppo penoso, sentito e metaforicamente carico per riuscire ad essere veramente lucido e trascendere al di sopra del cupo affresco introspettivo di matrice psicoanalitica. Ne resta un apparato figurativo di magistrale malia oscura ed una serie di mirabolanti invenzioni visive, sospese tra lugubre ironia e torbido erotismo, che, in un certo senso, sembrano quasi anticipare l’estetica di David Lynch. Insomma c’è più forma che sostanza, ma il fascino dark che esala dalle immagini appartiene ad un livello cinematografico superiore, quello del puro genio visionario.

Voto:
voto: 3,5/5

Nessun commento:

Posta un commento