Johan
è un pittore nevrotico e misantropo che vive su una piccola isola semideserta,
in condizioni di voluto isolamento, insieme a sua moglie Alma. L’uomo ha il
terrore delle ore notturne ed è afflitto da terribili visioni che lo spaventano
e lo ossessionano e che il nostro annota puntualmente in un diario con estrema
dovizia di particolari macabri. Alma cerca in tutti i modi di aiutarlo ma, un
giorno, dopo una festa in un castello, inizia ad avere anche lei le stesse
allucinazioni di Johan. Inquietante dramma psicologico dai risvolti horror, liberamente ispirato al
manoscritto teatrale “Gli antropofagi”,
scritto dallo stesso Bergman nel 1962, è un’opera cupa, tortuosa e personale,
densa di numerosi elementi autobiografici. Come indicato esplicitamente dallo
stesso autore (“Ho osato fare alcuni
passi, ma non ho percorso tutta la strada”) il film sembra una sorta di taccuino
personale, onirico e simbolico, in cui prendono vita, attraverso i “demoni” di Johan,
i fantasmi interiori del regista in un periodo particolarmente sofferto della
propria vita. Le stesse ambientazioni (la pellicola fu girata nella riserva
naturale di Skåneleden, a Hovs Hallar) ricordano molto quelle dell’isola di Fårö,
dove Bergman amava esiliarsi per vivere lunghi periodi lontano dal mondo. Come
spiegato chiaramente dal protagonista, l’ora del lupo è quella fase terminale della
notte in cui l’alba incombe, il sonno è nella sua fase più profonda e gli
incubi personali assumono la loro forma più terribile e pregnante. Le stranianti
immagini incorniciate dalla spettrale fotografia in bianco e nero di Sven
Nykvist sono di tetra crudezza e le atroci presenze che divorano l’animo del
protagonista danno forma mostruosa alle ossessioni dell’autore: i traumi
infantili, la solitudine esistenziale, il fallimento dei rapporti di coppia, il
senso di inadeguatezza rispetto alla vita. Magnetici ed intensi i due
protagonisti, Max von Sydow e Liv Ullmann, per un film troppo penoso, sentito e
metaforicamente carico per riuscire ad essere veramente lucido e trascendere al
di sopra del cupo affresco introspettivo di matrice psicoanalitica. Ne resta un
apparato figurativo di magistrale malia oscura ed una serie di mirabolanti invenzioni
visive, sospese tra lugubre ironia e torbido erotismo, che, in un certo senso, sembrano
quasi anticipare l’estetica di David Lynch. Insomma c’è più forma che sostanza,
ma il fascino dark che esala dalle
immagini appartiene ad un livello cinematografico superiore, quello del puro
genio visionario.
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