Lo
stralunato Monsieur Hulot vaga per i quartieri avveniristici di Parigi alla
disperata ricerca di un impiegato suo conoscente e si perde nel sottobosco di
orpelli tecnologici e architetture futuristiche che il progresso ha imposto
come frutto della modernità. Quando il nostro si imbatte in un gruppo di
turisti americani, la sua naturale inettitudine riuscirà a trasformare
l’inaugurazione di un locale in una baraonda. Capolavoro comico farsesco di
Jacques Tati, regista, attore, mimo e sceneggiatore, paladino della commedia slapstick d’oltralpe negli anni ’50 e
’60, la cui arte umoristica (evidentemente influenzata dai maestri del muto
Buster Keaton e Charlie Chaplin) seppe raccontare con sarcastica derisione la
società francese del boom economico. Attraverso il suo alter ego Monsieur
Hulot, uomo goffo e stranito sempre vestito con impermeabile, cappello,
ombrello in mano e pipa in bocca, interpretato dallo stesso Tati, l’autore
fotografa, parodisticamente, un’altra faccia della Francia rispetto a quella
convenzionale, focalizzandosi sui temi a lui cari: le correnti comuniste
provenienti dall’Est europeo, la mancanza di coesione tra i diversi ceti
sociali e i danni portati dal progresso tecnologico che ha disumanizzato la
società, alienando la vita quotidiana. Playtime
è il suo progetto più ambizioso e costoso, una commedia surreale che, nello
scontro tra Hulot e la tecnologia imperante, mette nel mirino la corsa al
modernismo come il vero nemico sociale da combattere. In un mondo astratto e
lunare in cui gli esseri umani si perdono nelle angoscianti geometrie
architettoniche dei moderni quartieri, i rumori delle macchine sovrastano i
dialoghi e l’asetticità degli spazi uniformati umilia la libertà fantastica
dello spirito, le peripezie del buffo Hulot fanno da cartina tornasole (e da
grido di allarme) di una situazione che, rivista col senno di poi, assume la
valenza di un sinistro monito profetico nei confronti della globalizzazione su
larga scala. Straordinario l’uso espressionistico del formato in 70 mm (per intenderci lo
stesso utilizzato da Kubrick in 2001: Odissea nello spazio), per racchiudere all’interno di ogni singola
inquadratura il maggior numero possibile di elementi attraverso un utilizzo
funambolico della profondità di campo, mettendo così a dura prova l’attenzione
attiva dello spettatore, ma dando vita ad un affresco di mirabile e straniante
potenza visiva. Inutile dire che la visione di questa pellicola su un piccolo monitor
ne mortifica la forza espressiva e la portata immaginifica, per questo è quasi
obbligatorio guardarla sullo schermo più grande possibile. Tati riesce a
mettere in immagini, come mai prima e mai più nella sua brillante carriera, la
crisi sociale e spirituale del suo tempo, in un’amara farsa di lucido rigore
caustico. Osannato dai critici ma incompreso dal pubblico per il suo maggior
ermetismo visivo e ideologico, Playtime
è il più grande lascito artistico del suo autore ma che gli costò un prezzo salatissimo
per i suoi alti costi: il fallimento della casa di produzione ed il conseguente
indebitamento personale del regista-attore, che fu costretto a vendere la sua
casa familiare di Saint-Germain, finendo in grossi guai finanziari per lunghi
anni.
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