Susanne,
direttrice di uno studio fotografico, parte per un viaggio insieme ad una delle
sue modelle, Doris, per incontrare Henrik, un uomo sposato di cui è innamorata.
L’incontro con l’amante si rivelerà molto deludente e, a causa dell’intervento
deciso della moglie di lui, Susanne decide di troncare la relazione. Intanto
Doris fa la conoscenza di un uomo distinto di mezza età che sembra molto
attratto da lei e le fa una corte serrata. Quando la donna sta per cedere alle
lusinghe cambierà idea grazie all’incontro con l’avida figlia dell’uomo. Melodramma
“a specchio”, di geometrica precisione e di rigorosa compostezza, strutturato, beffardamente,
attraverso due storie parallele il cui esito sarà di amara convergenza, a
suggello della difficoltà del rapporto di coppia, che è uno dei temi ricorrenti
dell’estetica bergmaniana. Lo sguardo
registico è ormai saldo e maturo, il tocco è sapido, lo stile è asciutto, e la
solidarietà tra i personaggi femminili (uniti nelle ferite) si oppone alla
meschinità di quelli maschili, impietosamente descritti come pavidi
approfittatori piegati alla tirannia del conformismo sociale. Straordinaria la
contrapposizione sistematica tra i momenti drammatici e le scene prive di
dialogo, cariche di un profondo silenzio “in divenire”, in un ipnotico gioco di
opposti che obbedisce all’antinomia primaria (maschio vs. femmina), declinata
attraverso una lunga catena di simbolismi attinenti: possessività vs. passione,
razionalità vs. sogno, brutalità vs. sensibilità, sensualità vs. freddezza,
solarità vs. cupezza. In una affascinante galleria di chiaro scuri, tra
dissolvenze incrociate e variazioni sul tema, l’autore cristallizza in ogni
magnifica sequenza il senso profondo di smarrimento esistenziale che è alla
base della sua sintassi cinematografica. Uno smarrimento che è dubbio, che è
ricerca, che è tormento ma che è, anche, vita. La grazia e la sensualità di Harriet
Andersson donano un tocco di giocosa gioia al film.
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