Nella
Bassa Padana il mite matto Salvini dice di sentire voci misteriose dal fondo
dei pozzi di campagna illuminati dalla luna. Mentre cerca la sua donna ideale
incontra una serie di personaggi stravaganti tra cui il prefetto in pensione Gonnella,
paranoico e ossessionato dalle congiure, con il quale condividerà strampalate
avventure. Liberamente ispirato al romanzo “Il
poema dei lunatici” di Ermanno Cavazzoni, l’ultimo film di Fellini è una
fiaba surreale e sconsolata che ci parla di solitudine, di follia, di vecchiaia
e di morte, a cui l’autore affida il suo lapidario commento/epitaffio sulla
volgarità di un presente becero e chiassoso, di fronte al quale la dignità del
silenzio è l’unica risposta possibile. Nonostante una trama un po’ disordinata,
l’opera abbonda di invenzioni visive e di esuberanza metaforica, malgrado il
tono sommesso, malinconico e profondamente amaro. E’ obbligatorio citare, in
tal senso, la festa della “gnoccata” o la tavola rotonda televisiva. Va anche
detto che, nonostante il prestigio mai venuto meno e la costante originalità
delle sue opere (anche di quelle apparentemente ripetitive), Fellini dovette
incontrare difficoltà sempre maggiori a trovare finanziamenti per i suoi film. Egli
non era più ritenuto (in realtà non lo era mai stato) un autore commerciale, i
suoi film riscuotevano sempre meno successo, il gusto del pubblico era cambiato
e, pertanto, i produttori non gli concedevano più credito. Solo con molte
difficoltà il nostro trovò i finanziamenti per questo suo ultimo film, La voce della luna, canto del cigno di
una carriera gloriosa e, in qualche modo, suo testamento artistico (ma tutti i
suoi ultimi film possono essere considerati tali). Non è tuttavia uno dei suoi
capolavori, è l’opera di un artista stanco e disilluso, ormai chiuso nel cerchio
dei suoi pensieri, prigioniero dei suoi fantasmi, deluso e un po’ sconsolato,
che ripete la sua denunzia del disfacimento dei tempi moderni, lamentando la perdita degli antichi valori. Sono
temi già familiari e, stavolta, più enunciati che sviluppati, in un film cui
nuoce non poco la programmatica ricerca della poesia, perseguita attraverso il
trasognato andamento della vicenda e l’astrazione dei due personaggi principali
(nel cui ruolo stonano, e sembrano snaturati, due attori spudoratamente comici
come Roberto Benigni e Paolo Villaggio). Ma, come già detto in precedenza,
nemmeno quest’ultima opera, benché manieristica e disomogenea, manca di momenti
di assoluto fascino e di geniali unghiate d’autore. Le riserve sono dovute
all’automatico confronto con i capolavori e le altre pellicole maggiori di un
artista di straordinaria fantasia creativa, ma, considerata a se stante, La voce della luna vale più (come del
resto tutte le opere “minori” di Fellini) dei migliori risultati di molti altri
registi, magari anche apprezzati oltremisura. Dopo questo film, anch’esso di
limitato successo, l’autore non ha più trovato produttori disposti a
“rischiare” e di questo se ne rammaricava spesso pubblicamente. Gli americani,
che l’hanno sempre amato moltissimo (e spesso anche tentato con offerte di
lavoro, costantemente rifiutate perché Fellini non si riteneva compatibile con
un ambiente diverso) lo insigneranno, nel 1993, di un “quinto” prestigioso
Oscar celebrativo alla carriera, che l’autore, nella cerimonia di premiazione a
Los Angeles, interpretò acutamente (e con l’abituale pungente ironia) come una
prematura “imbalsamazione”. E infatti morirà, purtroppo e improvvisamente, solo
qualche mese più tardi, lasciando l’intero Cinema mondiale un po’ più solo.
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