In
una piccola cittadina della California due pugili, il vecchio Billy Tully,
deluso e sul viale del tramonto, e il giovane Ernie Munger, inesperto ma pieno
di energie e di belle speranze, si incontrano, fanno amicizia e cercano di
aiutarsi reciprocamente per uscire dal degrado della loro squallida realtà, un
misero ghetto di provincia popolato da reietti rassegnati e sconfitti. Tully
crede molto nel talento di Munger e si adopera per incoraggiarlo e presentarlo
ai manager di sua conoscenza. Ma non sarà facile sfuggire alla dura
quotidianità di una vita miserabile. Cupo e struggente dramma sportivo, in cui
il mondo della boxe, in cui è ambientato, è solo un pretesto per tracciare un
affresco lucido, disperato e appassionato sull’America dei perdenti, sul lato
in ombra dell’opulenza della società statunitense, dove il Sogno non è mai
arrivato e i protagonisti sono meschini proletari presi a calci dalla vita e
intimamente disillusi. Senza enfasi retorica e senza tentazioni romantiche,
l’autore accompagna i suoi falliti con sconsolata tenerezza, mettendosi sempre
al loro fianco piuttosto che sopra di loro, come un osservatore preciso e
compassionevole che non nasconde la sua indignazione, pur mantenendo sempre i
toni all’insegna di un’asciutta compostezza. Nel suo aspro minimalismo è un
film denso e potente, che guarda a Hemingway per il rigore dell’analisi
antropologica, straordinario nel suo sofferto lirismo, straniante nella sua
fotografia livida e impietosamente beffardo nel titolo originale (Fat City allude, ironicamente, ad una
sorta di paradiso in terra). In questa malinconica elegia dei derelitti, Huston
dispensa graffi di classe pura, riconfermandosi narratore straordinario di
categoria superiore. Eccellente il cast con i due protagonisti, Stacy Keach e Jeff
Bridges, magnifici per dolente intensità. E’ uno dei film più sentiti e toccanti
del grande regista americano, da annoverare tra le perle della sua luminosa
filmografia.
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