In un atelier romano di proprietà di Massimo Morlacchi e della contessa Cristiana Cuomo, la modella Isabella viene strangolata da un misterioso assassino dal volto celato da un cappuccio bianco. L'ispettore di polizia Silvestri inizia a indagare e scopre un sottobosco di inganni, tradimenti, lussuria, invidie e nefandezze dietro la facciata dorata che caratterizza il mondo della moda. Intanto l'elemento che dovrebbe chiarire molti segreti è il diario della vittima che viene nascosto da Nicole, un'altra modella che teme lo scandalo che seguirebbe inevitabilmente alla lettura pubblica del memoriale. Mentre lo scottante diario passa di mano in mano, il killer mascherato continua a uccidere modelle per entrarne anch'egli in possesso. Memorabile thriller giallo di Mario Bava, che già si era cimentato nel genere con l'acerbo La ragazza che sapeva troppo (1963), di evidente ispirazione hitchcockiana ma comunque percorso da lampi di pura creatività istintiva. Questo film purtroppo sconosciuto ai non cinefili è il fondatore involontario del fortunato genere da molti definito "giallo all'italiana" (o "spaghetti thriller") che poi spopolerà negli anni '70 facendo la fortuna di registi come Dario Argento, che sono totalmente debitori di Mario Bava e di questo suo film in particolare. Per quanto basata su una storia inverosimile e a tratti illogica nelle sue evidenti forzature alla ricerca del finale a sorpresa, la pellicola è un autentico spettacolo per gli occhi grazie al genio visionario dell'autore che sperimenta un utilizzo enfatizzato del colore per dar vita ad ambientazioni inquietanti di pura magnificenza barocca e di alta suggestione pittorica. Un universo surreale di oscura malia dove sadismo, violenza, antirealismo, pennellate antinaturalistiche e colpi di scena trovano la loro cornice ideale che ne sublima la componente morbosa in uno scenario stilisticamente eccelso, sospeso tra genialità e manierismo. Il suo impatto sul cinema di genere italiano fu devastante e lo si capì chiaramente negli anni successivi quando tanti registi (non solo nostrani) ne "copiarono" inconsciamente gli stilemi e le atmosfere. Sei donne per l'assassino codifica in maniera inequivocabile, con assoluta originalità e lungimiranza di concezione, quelli che poi diverranno i topoi caratteristici del "giallo all'italiana": l'assassino in guanti e vestito nero, la ripresa dalla soggettiva del killer, gli omicidi efferati e ricchi di inventiva nella loro esecuzione, il voyeurismo e la perversione grafica (con l'estetica visiva influenzata dalla crudeltà patologica del maniaco). Tra le tante sequenze straordinarie dell'opera voglio ricordare quella dei titoli di testa in cui i manichini dell'atelier si confondono con le modelle che sembrano "tutte uguali". Adorato da tantissimi cinefili di tutto il mondo e da grandi registi come Scorsese o Almodóvar, Sei donne per l'assassino è una storica perla del nostro cinema di genere, fondante e visionario, da riscoprire assolutamente. Ed è incredibile notare come il film sappia regalare autentici brividi ancora oggi, a distanza di 52 anni dalla sua uscita nelle sale.
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