Nel 1845 una carovana di pionieri percorre le piste dell'Oregon Trail (celebre sentiero di migrazione molto usato nella metà dell'800 per raggiungere i territori del Pacifico nord occidentale, a sud del confine canadese e ad ovest delle Montagne Rocciose), sotto la guida dell'esperto Stephen Meek (Bruce Greenwood) che li deve condurre fino alla regione settentrionale delle Cascade Mountains. Meek decide di abbandonare il percorso principale per prendere una scorciatoia attraverso un territorio impervio, provocando le ansie di alcuni membri del convoglio, tra cui la risoluta Emily Tetherow (Michelle Williams). In breve la carovana si ritrova in mezzo alla natura desertica, selvaggia e ostile, la guida sembra aver smarrito la direzione ed i primi morsi della fame, della sete, del caldo e del freddo iniziano a farsi sentire. L'incontro inaspettato con un pellerossa metterà il gruppetto guidato da Emily di fronte ad un arduo dilemma etico: continuare a seguire Meek oppure affidarsi alla conoscenza del territorio del "nemico". Spesso si dice che il genere western, il classico per eccellenza della mitologia americana sul grande schermo, è finito, che non c'è più nulla di nuovo da dire dopo tutti i capolavori che sono già stati realizzati nel tempo, sia da autori statunitensi che europei. E' un'affermazione un po' tranchant ma non del tutto priva di fondamento. Non è però il caso di questo originale western intimistico esistenziale, che costituisce una piacevole eccezione oltre che un approccio inconsueto, autoriale e spirituale ad un genere fortemente codificato. Diretto con maestria dalla bravissima regista di cinema indipendente Kelly Reichardt, questo (anti)western dell'anima ribalta molti stereotipi, suggerendo una direzione diversa, poetica, a suo modo iconoclasta ma non arrogante. Del tutto privo di azione o di sparatorie, questo quieto film riflessivo sull'essenza recondita della vecchia frontiera vive di silenzi e di sterminati paesaggi, di sguardi e di emozioni a fior di labbra, opponendo una sensibilità femminile allo sgualcito stereotipo del machismo imperante (oggi parecchio vituperato, ma indubbiamente obsoleto nella sua turgida inconsistenza) e raffigurando la mitica "Terra Promessa" dell'epopea classica come un brullo deserto inseminato. Senza mai alzare la voce o ricorrere ad effettismi gratuiti per enunciare le sue idee, la Reichardt utilizza il viaggio (atavico simbolo del percorso di formazione interiore) per scavare nelle radici selvagge del così detto "Nuovo Mondo", utilizzandolo come scarno palcoscenico dell'ancestrale lotta tra esseri umani (ideologica più che fisica), in merito a questioni come sopravvivenza, appartenenza, fiducia, incomunicabilità, conflitto tra istinto e ragione, superamento di antichi tabù e, forse, raggiungimento della piena libertà (quella morale). Fortemente simbolica, in tal senso, la magnifica sequenza dell'indiano che parla un idioma per tutti incomprensibile, ma che, attraverso lo sguardo, gli atteggiamenti ed il linguaggio del corpo, riesce a trasmettere "qualcosa" a "qualcuno", aprendo uno spiraglio nella cortina della paura e del pregiudizio. C'è chi ha evocato nomi altisonanti come Michelangelo Antonioni o Peter Weir in relazione a questa malinconica ballata dell'esistenza. E non a sproposito.
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