giovedì 4 maggio 2017

Donnie Brasco (Donnie Brasco, 1997) di Mike Newell

New York, 1978: l’agente FBI sotto copertura Joe Pistone si infiltra con successo in una gang mafiosa di Little Italy, assumendo la falsa identità di Donnie Brasco, trafficante di gioielli affamato di ascesa nel mondo criminale. Il suo legame con la mafia avviene attraverso “Lefty” Ruggiero, mafioso di mezza tacca con qualche anno di troppo per continuare la sua attività di piccolo manovale del crimine. Tra i due uomini nasce una sincera amicizia e “Lefty”, che stravede per l’intraprendente Donnie, lo tratta come un figlioccio a cui dispensare tutti i suoi consigli di uomo cinico e deluso da una vita che gli è sfuggita di mano troppo in fretta, come in un battito di ciglia. In breve Pistone, affascinato dal suo mentore e dallo stile di vita che si trova a condurre, inizia ad avvertire dei dubbi sulla propria saldezza morale e teme che il suo doppio gioco possa costare la vita di “Lefty”, che intanto lo ha messo in contatto con i boss della banda. Tratto dal libro autobiografico di memorie “My Undercover Life in the Mafia” di Joseph D.Pistone, poliziotto italoamericano infiltrato nelle file di “cosa nostra”, è un poliziesco psicologico diretto da un regista apparentemente alieno al genere come il britannico Mike Newell (qui al suo primo lavoro hollywoodiano) e, forse proprio per questo, attento principalmente al disegno dei personaggi e alle sfumature che regolano i loro comportamenti più che all’azione violenta (fatta eccezione per un’unica terribile sequenza che, nel finale, ci ricorda l’assuefazione all’orrore dei criminali). Più che un mafia movie in senso tradizionale è un malinconico apologo sul fascino del male, sul conflitto tra senso del dovere e amicizia e sulla sottile linea di confine tra interpretare un personaggio e diventare quel personaggio. Lucide e interessanti le riflessioni sul difficile lavoro di poliziotto sotto copertura e sulla sua pericolosa promiscuità, che nel tempo può divenire connivenza, con quel mondo “deviato” che deve combattere, così come sono notevoli le descrizioni di tutti i rituali e le ideologie che regolano il sottobosco mafioso, sordida giungla antropologica che sopravvive grazie alla sua antica struttura “tribale”. Il cuore della storia risiede nel rapporto tra i due protagonisti, interpretati con veemente intensità drammatica da Johnny Depp e Al Pacino, che appaiono facce diverse della stessa medaglia, due marionette nelle mani di un rigido sistema di controllo che li rende, all’occorrenza, schiavi, vittime o carnefici. Completano il cast Michael Madsen, Bruno Kirby, James Russo e Anne Heche. Il film ha avuto una nomination agli Oscar per la migliore sceneggiatura non originale di Paul Attanasio. Esistono due diverse versioni della pellicola: quella cinematografica di 122 minuti e una estesa, uscita in home video, di 147 minuti. Il modo di dire dello slang mafioso italoamericano ripetutamente citato nel film, “Che te lo dico a fare?” (“Forget about it!” in originale), è entrato tra le 100 migliori citazioni cinematografiche di tutti i tempi secondo la classifica curata dall’American Film Institute.

La frase: "Che te lo dico a fare significa... tu, stai parlando con qualcuno e gli fai certo che Rachel Welch è proprio un gran bel pezzo di fica, che te lo dico a fare, oppure se non sei d'accordo che una Lincon è meglio di una Cadillac, che te lo dico a fare, oppure se una cosa secondo te è buona ma tanto buona, minchia sti peperoni... che te lo dico a fare, ma a volte può anche voler dire vai al Diavolo: tipo uno fa all'altro, ehi Bubbie, si dice che hai il cazzo piccolo e Bubbie: che te lo dico a fare! e a volte non significa niente, solo... che te lo dico a fare."

Voto:
voto: 4/5

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