In
un paese dell’America latina appena uscito dalla dittatura, Paulina Escobar
crede di riconoscere nel dottor Miranda uno degli aguzzini che l’hanno atrocemente
seviziata durante i duri anni della repressione politica. Dopo averlo catturato
e immobilizzato la donna imbastisce un “processo” privato nei confronti dell’uomo,
affidando al marito avvocato il compito di prenderne la difesa. Miranda nega le
accuse con tutte le sue forze ma Paulina è sicura dei suoi ricordi e, per
liberarli in tutta la loro tragica forza, utilizza come sottofondo musicale
della sua invettiva il quartetto n. 14 in re minore di Schubert (“La morte e la fanciulla”), la stessa
musica che accompagnava le terribili torture da lei subite quindici anni prima.
Cupo dramma da camera di Polanski, liberamente tratto da una pièce teatrale del cileno Ariel Dorfman,
è un duro apologo contro le tirannie dittatoriali sotto forma di vibrante
trattato di cinema della crudeltà, contaminato da tutte le ossessioni tipiche
del grande regista polacco come il rapporto tra sesso e violenza, la linea
sottile che a volte separa il ruolo di vittima da quello di carnefice o l’oscura
ambiguità della natura umana. Tutto ambientato in interni, è anche un sottile
thriller psicologico sull’interiorizzazione del dolore, a tratti indebolito da
un eccessivo livore nei toni e da qualche schematismo concettuale che finisce
per enfatizzare troppo l’impianto accusatorio alla base dell’opera. Le uniche
due sequenze girate all’aperto, che hanno l’acqua come elemento dominante, sono
di alto vigore espressivo ed omaggiano elementi archetipi ricorrenti e
predominanti nella filmografia dell’autore. Notevole il cast con i due
mattatori Sigourney Weaver e Ben Kingsley, e Stuart Wilson a fare da ago della
bilancia. Per quanto caratterizzato da spunti di interesse e notevole fascino
oscuro, è un film non completamente riuscito e sicuramente inferiore alle opere
migliori di Polanski.
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