mercoledì 28 aprile 2021

Il ladro di Bagdad (The Thief of Bagdad, 1940) di Ludwig Berger, Michael Powell, Tim Whelan

Da una novella de "Le mille e una notte": Ahmed, giovane sultano legittimo di Baghdad, viene spodestato con l'inganno dal Gran Visir Jaffar, che lo fa rinchiudere in carcere. Grazie all'abilità del ladro Abu, con cui condivide la cella, Ahmed riesce a fuggire. I due si nascondono nella città di Bassora, dove Ahmed incontra la bellissima figlia del vecchio sultano del luogo, e i due giovani s'innamorano rapidamente. Ma anche il crudele Jaffar è intenzionato a sposare la principessa e, quando si accorge che la ragazza intende fuggire con il suo rivale, la rapisce, uccide il sultano suo padre e, con un incantesimo di magia nera, rende cieco Ahmed e trasforma il ladro Abu in un cane. L'innamorato Ahmed non si dà per vinto e il Gran Visir lo condanna alla decapitazione. Ma ha sottovalutato le abilità di Abu. Straordinario film d'avventura epico-fantastico che alla sua uscita, grazie ai formidabili effetti speciali e alla magia del Technicolor, incantò gli spettatori di tutto il mondo per la sua magnificenza visiva e per il ritmo travolgente. Delle tre versioni cinematografiche della celebre fiaba orientale (le altre sono state realizzate nel 1924 da Raoul Walsh e nel 1961 da Arthur Lubin e Bruno Vailati), questa è la migliore: un tripudio abbacinante di colori e mirabilie, un'autentica festa esplosiva per gli occhi che solletica quel grande senso di meraviglia che era alla base dell'idea di cinema dei pionieri. Erano gli anni in cui il cinema britannico, pur di competere con l'eterno rivale americano, non badava a spese nella produzione dei "kolossal" (termine ormai desueto ma sempre molto efficace, oserei dire insostituibile, i sostitutivi odierni non danno lo stesso effetto onomatopeico). Ben tre registi (più altri tre non accreditati) collaborarono alla complessa realizzazione di questa pellicola imponente e graficamente opulenta. Della grandezza visiva abbiamo già parlato, ma non vanno dimenticate: la ricchezza barocca delle scenografie, la ricostruzione con fondali "cartacei" di un oriente trasfigurato con grande senso evocativo, al punto da renderlo un "non luogo", uno spazio archetipale, immaginifico, un altrove di fantasia, sensualità, violenza e magia, dove ogni cosa è possibile. E quando la sospensione dell'incredulità riesce e il pubblico "dimentica" di trovarsi in un contesto fantasy, vuol dire che la missione è totalmente compiuta. E ancora: lo straordinario respiro avventuroso che esala da tutte le scene d'azione. Memorabile quella di Abu che va alla ricerca della pietra magica chiamata "occhio onnivedente" (palese metafora del cinema stesso, gustosamente inserita da Powell, un espediente su cui ritornerà, in tutt'altro genere, nel 1960), e poi l'incontro con il Genio della Lampada, la lotta con il ragno, il tappeto volante. E infine, ma non per classifica di merito, le sapienti scelte di adattamento, nel delicato passaggio (Charlie Kaufman e Spike Jonze ne sanno qualcosa!) dal racconto scritto alla sceneggiatura per il cinema da tradurre in immagini, visioni, simboli. Tutti gli adattamenti sono insidiosi, ma un testo così famoso, amato e, soprattutto, "immaginato" comporta delle responsabilità ancora maggiori nella speranza di non deludere il pubblico dei lettori (e dei "sognatori"). La bontà delle scelte eseguite in questa fase (dall'ottimo Miles Malleson) hanno un peso notevole nella grandezza del risultato finale: in particolare quella, vincente, di mettere la storia d'amore al centro della storia, rendendo il film un vibrante melodramma esotico fiabesco d'avventura. Tre premi Oscar: fotografia, scenografie ed effetti speciali.
 
Voto:
voto: 5/5

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