venerdì 30 aprile 2021

Love Exposure (Ai no mukidashi, 2008) di Sion Sono

Yu è uno strano ragazzo, figlio di un ex prete cattolico, orfano di madre, ossessionato dalla Vergine Maria e dall'intimo femminile che si compiace di fotografare per strada, travestendosi da ninja, sbirciando con l'obiettivo sotto le gonne delle passanti. Dopo aver acquisito una bella "sorellastra" di nome Yoko (figlia della nuova focosissima amante di suo padre), s'innamora perdutamente di lei, ma la ragazza pare alquanto incerta sul suo orientamento sessuale. Ma una delirante setta religiosa, chiamata "Chiesa Zero", inizia a interessarsi a loro, per motivi poco rassicuranti. Alla guida della congrega c'è Koike, una dark lady (ma vestita sempre di bianco!) senza scrupoli, abilissima a manipolare con l'arma della seduzione. Love Exposure è il film più ambizioso e indecifrabile di Sion Sono, probabilmente il compendio di tutta la sua arte, delle sue ossessioni e della sua estetica visionaria. Tutto questo è evidente già solo per la durata da "kolossal" (fu realizzato inizialmente come un'opera di 6 ore, poi ridotte a 4 per le pressioni della produzione), anche se il regista (che è pure un gran burlone) si è sempre divertito a definirlo un "b-movie". E del "b-movie" possiede la follia anarchica, la libertà impudente, la leggerezza espressiva, ma, diciamolo chiaramente, questo 16-esimo lungometraggio del grande autore giapponese è un capolavoro di post-modernismo, un'opera sgargiante e complessa, esagerata e stratificata, che brilla di luce propria per coraggio, anticonformismo, estro creativo, sperimentazione, citazionismo, sarcasmo, fiera autonomia. E' un film transgender, pervaso da sregolato e orgoglioso trasformismo, quasi indefinibile, sicuramente non riducibile ad una singola stringente classificazione. Cambia ritmo e tono in continuazione e attraversa con disinvoltura molti generi e tendenze, passando dal melodramma romantico alla commedia demenziale, dallo splatter al cinema d'azione, dalla critica sociale all'ironia grottesca, dall'erotico alle riflessioni esistenziali, in un caleidoscopio che, indubbiamente, un po' stordisce, a volte sconcerta, altre volte diverte di gusto, ma riesce incredibilmente a mantenersi in equilibrio, senza smarrire il filo della coerenza. Tra colpi di scena, trovate geniali e momenti kitsch, questo magma pulsante si mantiene fluido e distribuisce acidi fendenti alla religione, all'educazione repressiva, al patriarcato familiare, alla società moderna, alla faciloneria credulona, al moralismo bigotto. In questo film-manifesto l'autore realizza concretamente la sua teoria meta-cinematografica della disarticolazione dei generi, in nome di una espressività non recintata da schemi e classificazioni, ma audacemente libera. Anche la colonna sonora è sintonizzata sulla follia impudente del film, e spazia senza freni dal "Bolero" di Ravel al rock psichedelico, senza dimenticare il moderno pop giapponese, con un effetto suggestivo e straniante, a volte ben riuscito, altre volte meno. Meriterebbe il voto massimo per il coraggio, lo stile visivo e l'impagabile "indecenza", ma in 4 ore di durata qualche colpo a vuoto è quasi inevitabile. In Italia non è mai stato distribuito in sala, nè mi risulta che sia mai stato doppiato nella nostra lingua. Il pubblico non amante delle pellicole orientali o del cinema d'avanguardia farebbe meglio a starne alla larga. Per i cinefili filo-asiatici è un must.

Voto:
voto: 4,5/5

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