lunedì 26 aprile 2021

La donna di sabbia (Suna no onna, 1964) di Hiroshi Teshigahara

Uno studioso di insetti si trova nel deserto per le sue ricerche, si smarrisce e finisce in uno strano villaggio, dove chiede acqua e ospitalità. Viene condotto forzatamente in una capanna dove una donna vive isolata in una buca nella sabbia, a cui si accede solo attraverso una scala di corda. Contro la sua volontà egli viene spinto a scendere nella buca. Il giorno dopo l'uomo si risveglia e vede che la scala è sparita. Costretto alla prigionia insieme alla donna, ma senza capirne il motivo, imparerà a conoscerla, a condividerne la solitudine e ad amarla. Fino a che avrà un figlio da lei e dovrà compiere una scelta. La donna di sabbia è il film più conosciuto in occidente di Hiroshi Teshigahara, grazie al Premio Speciale della Giuria vinto al Festival di Cannes e le due nomination agli Oscar (miglior regia e miglior film straniero). Tratto dal romanzo omonimo di Kōbō Abe, è un dramma visionario che diventa incubo ipnotico, girato in un bianco e nero abbagliante, in bilico tra fascinazione erotica e parabola filosofica. L'intera opera è un'allegoria (alta e universale) della lotta dell'uomo contro l'impalpabile (la sabbia), che si manifesta nei vari momenti del film come paura, rabbia, tempo, malessere, desiderio, precarietà, dolore. E' un film privo di precise coordinate geografiche, temporali, ideologiche o religiose, ma un viaggio interiore, una parabola astratta del percorso umano. Il protagonista è un uomo che, quasi volutamente, si perde nel deserto, abbandona il proprio ruolo sociale, la propria "maschera", per andare alla ricerca del suo vero io. Ma la ricerca è molto più complessa e dolorosa di quanto potesse immaginare, avvolto dal Nulla e per la prima volta consapevole di essersi intimamente smarrito, egli cade nello scoramento e, forse, si pente della sua scelta. L'arrivo nel villaggio è la seconda tappa del suo viaggio esistenziale, l'incontro con l'assurdo, con l'inspiegabile e l'ineffabile della vita. Qui il film cambia e ciò che prima appariva intangibile adesso diventa materico, sensoriale, morboso. La sabbia diventa corpo, anzi corpi, e le dune del deserto assumono la linea morbida delle curve femminili. Gli amplessi sono inizialmente rabbiosi e disperati, poi diventano regressione primordiale, poi merce di scambio per i bisogni primari (acqua, cibo), poi ancora rituale pagano voyeuristico, in una stridente fusione di simbolismi, in cui è presente anche un implicito sottotesto politico (l'antitesi tra il modello di vita capitalistico e quello comunista). Arriva infine il momento cruciale della scelta, in cui la pellicola "chiarisce" il suo più intimo significato: l'uomo ha occasione di fuggire dalla sua prigionia ma sceglie di non farlo, per restare nella cava, nella sabbia, con la donna e il figlio che nascerà. Ovviamente non è soltanto l'amore a bloccarne la fuga ma, piuttosto, la raggiunta consapevolezza che la così detta "civiltà" è solo una forma più complessa di prigionia, e, per giunta, ben più lontana dalla sua reale natura interiore. Secondo la teoria sartriana, che l'autore sembra assecondare, l'assoluto non-senso del vivere umano implica che la libertà di scelta sia solo un modo di abbracciare ipotetiche alternative ugualmente prive di senso. Questo film sfuggente, complesso, bellissimo e seducente di Teshigahara era uno dei preferiti di Andrej Tarkovskij. E questo dice già molto sulla sua natura e sul suo valore.
 
Voto:
voto: 4,5/5

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