martedì 27 aprile 2021

Volti (Faces, 1968) di John Cassavetes

Richard e Maria sono una coppia ormai alla fine della loro relazione, totalmente incapaci di comunicare e ristabilire un'intesa emotiva. Lui conosce una prostituta bella e sensibile, mentre lei si lascia circuire da un giovane playboy. Una trama semplice, quasi scarna, per uno dei capolavori sperimentali di Cassavetes, che ritorna agli stilemi del suo folgorante esordio, Ombre (1958), ma in un contesto differente e in una società americana profondamente cambiata a distanza di 10 anni. I fermenti culturali e il coraggio creativo che si respiravano nella New York di fine anni '50, hanno ceduto il passo alla decadenza, all'ipocrisia e al conformismo di una upper class che ha preso il sopravvento. Girato in 16mm, in un bianco e nero spento, con lunghi piani sequenza, assenza di controcampi e macchina da presa a mano in perenne movimento, è una sorta di riattualizzazione di Ombre al mondo dell'alta borghesia ed alla nuova sensibilità sociale alle soglie degli anni '70. Abbiamo quindi, nuovamente, una sceneggiatura molto elastica e continue improvvisazioni da parte degli attori, che sono non professionisti oppure appartenenti alla ristretta cerchia del regista (Gena Rowlands, Seymour Cassel, John Marley). A quanto pare alcuni di essi lavorarono addirittura gratis, per spirito di amicizia verso Cassavetes. Il film fu girato nel 1964 in pochi mesi, ma il montaggio durò ben 4 anni, durante i quali l'autore ebbe mille dubbi e ripensamenti: accarezzò a lungo l'idea di farne un progetto teatrale (e questo si evince dall'evidente impostazione da "dramma da camera"), poi realizzò differenti versioni di varia durata, arrivando alla "sua release" di 220 minuti, che oggi è praticamente introvabile. Alla fine optò per la versione uscita in sala (e attualmente circolante in home video) di 130 minuti, non senza dolorosi compromessi personali. Tra citazioni affettuose del grande cinema d'autore europeo (Fellini, Bergman) e un pungente sarcasmo anti-hollywoodiano, l'autore parte da uno spunto narrativo da melò classico, pur immergendolo in un soffocante contesto di crisi e incomunicabilità, per realizzare un nuovo monumento alla sua concezione di cinema d'avanguardia: un cinema vacillante, fluido, dinamico, che scivola sui corpi degli attori, che bracca le loro espressioni, che quasi mette lo spettatore in contatto epidermico con il contesto narrativo, andando ben oltre il concetto ordinario di "identificazione". A questo si aggiungono suggestivi momenti onirici e possibili "sliding doors" alternative, creando un mondo di potente fascinazione, tanto ordinario nelle situazioni quanto straordinario nella rappresentazione stilistica. I detrattori del regista lo hanno bollato come sterile e irritante formalismo autoreferenziale, ma il primo "campanello d'allarme" di sospetto pregiudizio è venuto proprio da quella Hollywood che in questo film viene perfidamente derisa, con tre "pesanti" nomination agli Oscar: migliore sceneggiatura (Cassavetes), miglior attrice non protagonista (Lynn Carlin) e miglior attore non protagonista (Seymour Cassel). Portare a casa anche qualche statuetta dorata sarebbe stato chiedere troppo. Un giovanissimo Steven Spielberg prese parte alle riprese (non accreditato) come assistente di produzione.
 
Voto:
voto: 4,5/5

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