venerdì 1 aprile 2016

Piccolo Buddha (Little Buddha, 1993) di Bernardo Bertolucci

Si raccontano due storie in parallelo, una nel presente e una nel passato. La storia del piccolo Jesse, bambino americano di Seattle, con padre ingegnere edile e madre insegnante, che viene condotto in Tibet perché alcuni monaci buddisti venuti dal Bhutan ritengono che egli possa essere la reincarnazione di un loro maestro Lama, deceduto otto anni prima. La seconda storia è quella del principe Siddharta Gautama, vissuto 500 anni prima di Cristo e poi divenuto il Buddha originario, il “risvegliato”. Le due storie sono esposte in modo alternato e la seconda viene letta su un libro illustrato da alcuni personaggi della prima. Ambizioso e magniloquente film sul buddismo di Bertolucci, raccontato come una favola attraverso due linee narrative completamente diverse per stile, tono ed atmosfera. Due film in uno. Quello ambientato a Seattle guarda al cinema di Antonioni per concezione estetica: le immagini sono fredde, asettiche, i colori tenui, gli ambienti sobri trasudano un severo minimalismo. Il secondo film si ispira al cinema di De Mille ed è uno scintillante affresco di luci e di colori esultanti, che letteralmente esplodono dallo schermo, una soave composizione di figure plastiche, di corpi armoniosi che ci conducono in un’India ancestrale di mistico incanto. La contrapposizione estetica tra le due storie, egregiamente resa dalla straordinaria fotografia del grande Vittorio Storaro, simboleggia quella tra Oriente e Occidente, ovvero tra spiritualità e materialismo. Quest’opera non facile, ma indubbiamente meravigliosa, costituisce un unicum nella filmografia del grande regista italiano. E’, infatti, essenzialmente una soave fiaba “per bambini” vista attraverso gli occhi incantati di un bambino, il piccolo Jesse. Tutto va dunque letto in quest’ottica: la totale assenza di figure negative, di elementi di contrasto, di tormenti interiori, di tentazioni trasgressive e di pulsioni immorali. Nella prospettiva magica della fantasia infantile tutto è sogno, è mito, è poesia ed ogni forma di dolore viene trasfigurata in una dimensione spiritualmente più alta, uno stato di suprema illuminazione. Utilizzando questo simbolismo semplice, ma efficace, il regista intende illustrare il misticismo buddista, favorendone la comprensione ai profani. In questo stato di grazia e di incanto il film vola altissimo, specie nella storia di Siddharta, attraverso immagini di potente estro visionario, affreschi meravigliosi che ci rimandano ad una dimensione ascetica che attiene al meraviglioso. L’autore conferma il suo grande talento visivo, il suo alto senso dello spettacolo cinematografico e la sua grande abilità nel far recitare i bambini, traendone sempre il massimo risultato. Le notevoli esemplificazioni apportate al profondo messaggio della filosofia buddista, non impediscono la rappresentazione di due concetti basilari del pensiero del Buddha: quello della così detta “via di mezzo” (ovvero la ricerca di una dimensione spirituale posta tra la rinuncia ascetica e l’appagamento sensoriale) e quello della “impermanenza” , illustrata attraverso il sottile paragone con il castello di sabbia, difficile da edificare ma semplice da abbattere. L’ impermanenza è alla base del pensiero buddista ed è la metafora della stessa vita umana, fragile, fugace, fatta di polvere pronta a disperdersi al primo soffio di vento. A questo profondo concetto della cultura orientale, Bertolucci contrappone, nel segmento americano, il suo contrario: la supponente “permanenza” della nostra cultura materialista, raffigurata dai solidi grattacieli costruiti dal padre di Jesse, rigide strutture di cemento e di acciaio prive di anima, vani scheletri della decadenza occidentale. Una posizione indubbiamente manichea e superficiale nella sua totale intransigenza, ma conforme ad un punto di vista binario (il mondo è grigio oppure colorato), come è quello infantile. Per quanto riguarda l’aspetto tecnico ci troviamo di fronte ad un vero capolavoro, per la fotografia sontuosa di Vittorio Storaro, il montaggio espressivo di Pietro Scalia, le scenografie imponenti di James Acheson e gli incredibili effetti speciali “artigianali” che guardano al grande cinema dei pionieri. Nel cast va data una menzione speciale per l'intenso Ying Ruocheng, nel ruolo di Lama Norbu, mentre Keanu Reeves ci offre una prova superiore ai suoi standard e risulta credibile nel ruolo iconico del principe  Siddharta, il Buddha. Accanto a loro vanno citati il piccolo Alex Wiesendanger e poi Chris Isaak e Bridget Fonda. Incredibilmente incompreso dalla critica e snobbato dagli Oscar, è invece un film prezioso, importante e fieramente nobile nella sua calda serenità interiore. E’ un film buddista, proprio come voleva il suo regista.

Voto:
voto: 4,5/5

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