Si raccontano due storie in parallelo,
una nel presente e una nel passato. La storia del piccolo Jesse, bambino
americano di Seattle, con padre ingegnere edile e madre insegnante, che viene
condotto in Tibet perché alcuni monaci buddisti venuti dal Bhutan ritengono che
egli possa essere la reincarnazione di un loro maestro Lama, deceduto otto
anni prima. La seconda storia è quella del principe Siddharta Gautama, vissuto
500 anni prima di Cristo e poi divenuto il Buddha originario, il “risvegliato”.
Le due storie sono esposte in modo alternato e la seconda viene letta su un
libro illustrato da alcuni personaggi della prima. Ambizioso e magniloquente
film sul buddismo di Bertolucci, raccontato come una favola attraverso due
linee narrative completamente diverse per stile, tono ed atmosfera. Due film in
uno. Quello ambientato a Seattle guarda al cinema di Antonioni per concezione
estetica: le immagini sono fredde, asettiche, i colori tenui, gli ambienti sobri
trasudano un severo minimalismo. Il secondo film si ispira al cinema di De
Mille ed è uno scintillante affresco di luci e di colori esultanti, che
letteralmente esplodono dallo schermo, una soave composizione di figure
plastiche, di corpi armoniosi che ci conducono in un’India ancestrale di mistico
incanto. La contrapposizione estetica tra le due storie, egregiamente resa
dalla straordinaria fotografia del grande Vittorio Storaro, simboleggia quella
tra Oriente e Occidente, ovvero tra spiritualità e materialismo. Quest’opera
non facile, ma indubbiamente meravigliosa, costituisce un unicum nella filmografia del grande regista italiano. E’, infatti,
essenzialmente una soave fiaba “per bambini” vista attraverso gli occhi
incantati di un bambino, il piccolo Jesse. Tutto va dunque letto in
quest’ottica: la totale assenza di figure negative, di elementi di contrasto,
di tormenti interiori, di tentazioni trasgressive e di pulsioni immorali. Nella
prospettiva magica della fantasia infantile tutto è sogno, è mito, è poesia ed
ogni forma di dolore viene trasfigurata in una dimensione spiritualmente più
alta, uno stato di suprema illuminazione. Utilizzando questo simbolismo
semplice, ma efficace, il regista intende illustrare il misticismo buddista,
favorendone la comprensione ai profani. In questo stato di grazia e di incanto
il film vola altissimo, specie nella storia di Siddharta, attraverso immagini
di potente estro visionario, affreschi meravigliosi che ci rimandano ad una
dimensione ascetica che attiene al meraviglioso. L’autore conferma il suo
grande talento visivo, il suo alto senso dello spettacolo cinematografico e la
sua grande abilità nel far recitare i bambini, traendone sempre il massimo
risultato. Le notevoli esemplificazioni apportate al profondo messaggio della
filosofia buddista, non impediscono la rappresentazione di due concetti
basilari del pensiero del Buddha: quello della così detta “via di mezzo”
(ovvero la ricerca di una dimensione spirituale posta tra la rinuncia ascetica
e l’appagamento sensoriale) e quello della “impermanenza” , illustrata
attraverso il sottile paragone con il castello di sabbia, difficile da
edificare ma semplice da abbattere. L’ impermanenza è alla base del pensiero
buddista ed è la metafora della stessa vita umana, fragile, fugace, fatta di
polvere pronta a disperdersi al primo soffio di vento. A questo profondo
concetto della cultura orientale, Bertolucci contrappone, nel segmento
americano, il suo contrario: la supponente “permanenza” della nostra cultura
materialista, raffigurata dai solidi grattacieli costruiti dal padre di Jesse,
rigide strutture di cemento e di acciaio prive di anima, vani scheletri della
decadenza occidentale. Una posizione indubbiamente manichea e superficiale
nella sua totale intransigenza, ma conforme ad un punto di vista binario (il
mondo è grigio oppure colorato), come è quello infantile. Per quanto riguarda
l’aspetto tecnico ci troviamo di fronte ad un vero capolavoro, per la
fotografia sontuosa di Vittorio Storaro, il montaggio espressivo di Pietro
Scalia, le scenografie imponenti di James Acheson e gli incredibili effetti
speciali “artigianali” che guardano al grande cinema dei pionieri. Nel cast va
data una menzione speciale per l'intenso Ying Ruocheng, nel ruolo di Lama Norbu, mentre Keanu Reeves ci offre una prova superiore ai suoi standard e risulta credibile nel ruolo iconico del principe Siddharta, il Buddha. Accanto a loro vanno
citati il piccolo Alex Wiesendanger e poi Chris Isaak e Bridget Fonda.
Incredibilmente incompreso dalla critica e snobbato dagli Oscar, è invece un film
prezioso, importante e fieramente nobile nella sua calda serenità interiore. E’
un film buddista, proprio come voleva il suo regista.
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