venerdì 1 aprile 2016

La pelle (La pelle, 1981) di Liliana Cavani

Nella Napoli del 1944, appena liberata dagli alleati, il capitano Malaparte è protagonista di una singolare mediazione tra il generale americano Cork e il camorrista Mazzullo per la consegna di 112 prigionieri tedeschi alle forze alleate, per i quali il “guappo” pretende un pagamento al chilo. Intanto nella città partenopea, sprofondata in un abisso di follia, corruzione e depravazione, a causa del brusco passaggio dalla disperazione bellica alla gioia opulenta portata dagli americani, succede di tutto: madri che vendono i figli ai marocchini, avidi scugnizzi che smontano un carro armato in pieno centro e ne vendono i pezzi, omosessuali che si accoppiano in un’orgia, un’esaltata pilota americana che finisce stuprata dai suoi commilitoni, un padre che mette all’asta la verginità della figlia. L’apoteosi finale sarà un’improvvisa eruzione del Vesuvio e la tragica morte di un gioioso manifestante sulla via Appia, che finisce maciullato sotto un mezzo cingolato. Truce dramma in nero della Cavani, liberamente tratto dall’omonimo romanzo di Curzio Malaparte, che nel film è interpretato da Marcello Mastroianni. Forte di un cast sontuoso, che al già citato Mastroianni aggiunge Burt Lancaster, Claudia Cardinale, Ken Marshall e Carlo Giuffré, è una Babele laida e profanata, ricolma di umanità allo sbando. Un affresco magmatico, cruento, iperrealista e visivamente efferato, sospeso tra il teatro popolare napoletano e il sensazionalismo ripugnante delle pellicole “mondo”. Criticato aspramente per i suoi contenuti scandalosi e per le immagini forti, va letto nell’ottica della ridondanza trasgressiva e del barocchismo carnale dell’autrice, perennemente sospesa tra grazia e perdizione, luce e tenebra, passione e pulsione. Sapendo guardare oltre la sua patina sgradevole, non se ne può negare l’afflato metaforico di crudo ritratto antropologico, che intende evidenziare, in tutto il suo orrore, la decadenza collettiva del più tragico periodo storico del ‘900. Lo stile narrativo spinoso della regista emiliana giunge qui alla massima distorsione espressiva, per dimostrare, attraverso un disgustoso campionario di ignominie, l’empia flessibilità della natura umana, disposta a qualunque bassezza per salvare la propria pelle o per titillare il proprio ego in momenti storici di favorevole impunità. I numerosi siparietti tra yankees e napoletani, da molti superficialmente bollati come banali stereotipi, hanno invece una comprovata verosimiglianza storica ed intendono raffigurare il senso di abbrutimento morale che ogni guerra reca con sé, a danno sia dei vincitori che dei vinti. Quello che a molti benpensanti risultò intollerabile fu la rappresentazione (chiaramente provocatoria nella sua iperbole) di un intero popolo che si prostituisce (sia in senso lato che metaforico) per poter campare. Ma la Cavani non ci va leggera nemmeno con i liberatori americani, evidenziandone la tracotanza, l’invadenza rapace, l’ignoranza estrema e la tronfia esibizione di forza militare. Il solo Malaparte/Mastroianni appare una figura dignitosa e disincantata, una sorta di moderno Virgilio che ci guida attraverso i gironi infernali di una Napoli mefitica. Nel cast, non esattamente a suo agio, il più bravo è Giuffré, bravaccio viscido e sornione. Questo film molto costoso (circa tre miliardi di lire ai tempi) e rapidamente oscurato dalla critica conformista, è un esempio di cinema controverso e possente, vilipeso e disarmante, feroce ma non privo di pietas. E’ il manifesto, un po’ sbiadito e fuori tempo, di un certo cinema libero e selvaggio che andava di moda negli anni ’70. Da riscoprire, anche se non è adatto a tutti.

Voto:
voto: 4/5

Nessun commento:

Posta un commento