venerdì 8 aprile 2016

L'assedio (L'assedio, 1998) di Bernardo Bertolucci

Shandurai è una giovane ragazza africana che studia medicina a Roma e lavora come cameriera, in cambio di una stanza dove alloggiare, presso un prestigioso e antico palazzo che affaccia sulla scalinata di Trinità dei Monti. Il proprietario dell’immobile è Mr. Kinski, un inglese stravagante, musicista solitario che vive per il suo pianoforte ed è segretamente innamorato della donna. Quando Shandurai scopre che l’uomo ha venduto tutti i suoi beni per ottenere la liberazione del marito, prigioniero politico in un regime dittatoriale africano, si rende conto di provare qualcosa per lui e gli si concederà in una notte d’amore. Ma il marito di lei, appena liberato, suonerà al campanello della porta il mattino dopo. Piccolo grande film di Bertolucci, tratto dal racconto “The Siege” di James Lasdun, inizialmente nato come prodotto televisivo ma poi, fortunatamente, convertito per il grande schermo. Passato in sordina per la sua natura “minimal”, è invece un autentico gioiello, un melodramma raffreddato che lavora per sottrazione, che preferisce sottintendere anziché mostrare, con un ammirevole pudore che oscilla tra l’eroico e l’erotico. Elegante nella messa in scena, curato in ogni minimo dettaglio, ammirevole nelle interpretazioni dei due protagonisti (David Thewlis e Thandie Newton), è, in fin dei conti, l’ennesimo racconto di due disperate solitudini, che vivranno la loro storia al riparo delle quattro mura di un appartamento. Ma stavolta il grande regista parmense rinuncia del tutto all’erotismo torbido e all’esibizione carnale, in favore di una messa in scena sfumata, intima, raffinata, costruita sul non detto, sul gioco di sguardi e di silenzi, su inquadrature di volti, di corpi, di oggetti e di scorci che “parlano” attraverso associazioni istintive, sensoriali, sotterranee, utilizzando il linguaggio forbito del cinema d’avanguardia. Con personalità artistica e vigore creativo Bertolucci costruisce abilmente un film ricco e basato sugli opposti, su mondi diversi che riescono a comunicare tramite suggestioni “divine” come la musica, la sensualità, il sentimento. Geniale l’utilizzo espressivo degli spazi scenici per sottolineare l’evoluzione del rapporto tra i due protagonisti: dalle architetture verticali della prima parte si passa alla sinuosità concentrica delle scale, continuamente in evidenza nella seconda. E ancora ritorna il tema, caro al regista, del “dentro” (la casa nido che custodisce i sentimenti inespressi) e del “fuori” (una Roma solare, ma anche l’Africa con tutto il suo carico di dolorose ingiustizie). Intenso ed ammaliante, generoso di invenzioni ricercate e di sequenze stupende, è il miglior film dell’ultima parte della carriera dell’autore, un’opera intima che trasuda libertà ed esuberanza artistica. Assolutamente da non perdere.

Voto:
voto: 4/5

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