Parigi, primavera del ’68, alla vigilia
del “maggio francese”. I giovani fratelli Theo e Isabelle, approfittando
dell’assenza dei genitori partiti per una vacanza, ospitano in casa loro
l’americano Matthew, appena conosciuto alla Cinémathéque, con cui condividono
la passione per il cinema e per la musica rock. I tre ragazzi si rinchiudono
nel grosso appartamento borghese esplorando il proprio erotismo e le loro
emozioni attraverso una serie di “giochi” psicofisici sempre più estremi,
perversi ed alienanti, che li condurranno in un pericoloso delirio avulso dalla
realtà. Per fortuna la Storia
irromperà nella casa e nel mondo fittizio che li stava annichilendo.
Liberamente tratto dal racconto “The Holy
Innocents” di Gilbert Adair, questo melodramma trasgressivo, ricolmo
dell’impudenza sfacciata della “bella gioventù” e del sogno liberale dei
movimenti di ribellione sessantottini, è, in realtà, un malinconico affresco
rievocativo di un’età mitizzata e di un certo cinema del passato, verso cui Bertolucci,
che lo guarda con occhi da innamorato, non potrà mai essere obiettivo.
Stracolmo di citazioni cinefile ai suoi maestri e a se stesso, impreziosito da
una splendida colonna sonora eterogenea con numerose hits popolari dell’epoca, riprende tante tematiche care all’autore,
lasciando volutamente sullo sfondo il ’68, salvo poi farlo irrompere, con tutto
il suo impeto ribelle, nel finale un po’ accademico. Tra queste tematiche sono
facilmente individuabili: l’erotismo come forma pregnante delle pulsioni umane,
la ricerca compiaciuta dello “scandalo” come supremo atto liberatorio, i traumi
adolescenziali, la critica all’opulenza borghese, il contrasto (alla “Ultimo
tango”) tra dentro e fuori, ovvero tra un microcosmo chiuso in cui dar
sfogo ai propri impulsi ed un mondo esterno in cui esibire la propria maschera
di dolorosa ipocrisia. E come nel film del ’72, il “fuori” riuscirà a spazzare
via il sogno costruito “dentro”, ma con un effetto diverso, più politico che
morale, forse “salvifico” ma, probabilmente, irreversibile. In quest’opera fredda
e contraddittoria, non priva di fascino ma diseguale, si alternano scene molto
riuscite ad altre quasi imbarazzanti. I personaggi sono poco interessanti,
tranne quello di Isabelle, interpretato con fascino, fragilità e malizia da una
superba Eva Green, novella Afrodite tormentata da un amore impossibile. Il
resto del cast è completato da Michael Pitt e Louis Garrel. Il ruolo di Matthew
era stato offerto a Leonardo DiCaprio, che però dovette rifiutare per impegni
concomitanti. Forse la pecca maggiore del regista è quella di non aver saputo
approfondire a sufficienza il cuore nero e tragico del film, ovvero il rapporto
incestuoso-simbiotico che lega i due fratelli, giocando maggiormente
sull’ambiguità tra i ruoli di vittima e carnefice. Quest’opera contenitore,
estremo atto d’amore di un cinefilo verso la settima arte, si rispecchia nella
rabbiosa utopia della sua ambientazione sessantottina attraverso le sue tinte
forti, ma riflette appena un’immagine sbiadita di quella coscienza politica
collettiva. Di conseguenza l’affresco d’epoca, seppur intrigante, risulta
incompleto.
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