venerdì 8 aprile 2016

The Dreamers - I sognatori (The Dreamers, 2003) di Bernardo Bertolucci

Parigi, primavera del ’68, alla vigilia del “maggio francese”. I giovani fratelli Theo e Isabelle, approfittando dell’assenza dei genitori partiti per una vacanza, ospitano in casa loro l’americano Matthew, appena conosciuto alla Cinémathéque, con cui condividono la passione per il cinema e per la musica rock. I tre ragazzi si rinchiudono nel grosso appartamento borghese esplorando il proprio erotismo e le loro emozioni attraverso una serie di “giochi” psicofisici sempre più estremi, perversi ed alienanti, che li condurranno in un pericoloso delirio avulso dalla realtà. Per fortuna la Storia irromperà nella casa e nel mondo fittizio che li stava annichilendo. Liberamente tratto dal racconto “The Holy Innocents” di Gilbert Adair, questo melodramma trasgressivo, ricolmo dell’impudenza sfacciata della “bella gioventù” e del sogno liberale dei movimenti di ribellione sessantottini, è, in realtà, un malinconico affresco rievocativo di un’età mitizzata e di un certo cinema del passato, verso cui Bertolucci, che lo guarda con occhi da innamorato, non potrà mai essere obiettivo. Stracolmo di citazioni cinefile ai suoi maestri e a se stesso, impreziosito da una splendida colonna sonora eterogenea con numerose hits popolari dell’epoca, riprende tante tematiche care all’autore, lasciando volutamente sullo sfondo il ’68, salvo poi farlo irrompere, con tutto il suo impeto ribelle, nel finale un po’ accademico. Tra queste tematiche sono facilmente individuabili: l’erotismo come forma pregnante delle pulsioni umane, la ricerca compiaciuta dello “scandalo” come supremo atto liberatorio, i traumi adolescenziali, la critica all’opulenza borghese, il contrasto (alla “Ultimo tango”) tra dentro e fuori, ovvero tra un microcosmo chiuso in cui dar sfogo ai propri impulsi ed un mondo esterno in cui esibire la propria maschera di dolorosa ipocrisia. E come nel film del ’72, il “fuori” riuscirà a spazzare via il sogno costruito “dentro”, ma con un effetto diverso, più politico che morale, forse “salvifico” ma, probabilmente, irreversibile. In quest’opera fredda e contraddittoria, non priva di fascino ma diseguale, si alternano scene molto riuscite ad altre quasi imbarazzanti. I personaggi sono poco interessanti, tranne quello di Isabelle, interpretato con fascino, fragilità e malizia da una superba Eva Green, novella Afrodite tormentata da un amore impossibile. Il resto del cast è completato da Michael Pitt e Louis Garrel. Il ruolo di Matthew era stato offerto a Leonardo DiCaprio, che però dovette rifiutare per impegni concomitanti. Forse la pecca maggiore del regista è quella di non aver saputo approfondire a sufficienza il cuore nero e tragico del film, ovvero il rapporto incestuoso-simbiotico che lega i due fratelli, giocando maggiormente sull’ambiguità tra i ruoli di vittima e carnefice. Quest’opera contenitore, estremo atto d’amore di un cinefilo verso la settima arte, si rispecchia nella rabbiosa utopia della sua ambientazione sessantottina attraverso le sue tinte forti, ma riflette appena un’immagine sbiadita di quella coscienza politica collettiva. Di conseguenza l’affresco d’epoca, seppur intrigante, risulta incompleto.

Voto:
voto: 3,5/5

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