venerdì 1 aprile 2016

La scala a chiocciola (The Spiral Staircase, 1945) di Robert Siodmak

Agli inizi del ‘900 un remoto angolo della provincia americana è sconvolto da un misterioso omicida seriale che uccide giovani donne. Tutte le vittime hanno in comune un handicap fisico o psichico. In una grande villa isolata vive la signora Warren, l’anziana padrona di casa, insieme ai suoi due figli maschi ed al personale di servizio, tra cui la giovanissima Helen, divenuta muta in seguito ad un trauma. La sventurata Helen non immagina che il killer è sulle sue tracce. In un ideale viaggio nella storia del cinema thriller questo film di Robert Siodmak rappresenta una tappa obbligata, nonché uno dei precursori e dei maggiori innovatori per atmosfere, situazioni e trovate visive divenute poi, negli anni a venire, autentici stereotipi di questo tipo di cinematografia. Diciamo subito che questa pellicola non ha “inventato” il serial killer cinematografico, che si era già visto nel capolavoro M il Mostro di Dusseldorf di Fritz Lang. Tuttavia è indubbio il suo ruolo di archetipo nella codifica di numerosi stilemi che oggi inconsciamente accettiamo e ricerchiamo in un’opera ascrivibile al genere psico-thriller. Tratto dal romanzo “Some must watch” di Ethel Lina White, il film paga un indubbio dazio agli occhi dello spettatore moderno, specie se poco affine ai vecchi classici in bianco e nero o abituato a ben altri shock visivi. Infatti i momenti di tensione, che all’epoca divennero celeberrimi e ne decretarono il grande successo, appariranno sicuramente attenuati, prevedibili o addirittura ingenui ad una visione odierna. Va anche detto che il film indulge spesso nel melodrammatico o nell’eccessiva verbosità, e vi sono delle situazioni al limite del camp, che sicuramente potranno far sorridere. Anche l’identità dell’assassino è tutt’altro che imprevedibile e, infatti, non è su questo che si fonda la suspense della vicenda. Tuttavia l’opera ha tantissimi meriti “storici” a cominciare da ambientazioni e situazioni che hanno fatto scuola: la grande casa, le enormi stanze vuote, i silenzi, la notte di tempesta, la cantina oscura, la candela che si spegne nel buio, il senso di disagio accresciuto dal mutismo della protagonista, la vittima braccata dall’assassino in uno scontro chiaramente impari. E poi vanno citate le tecniche di ripresa dell’assassino attraverso i particolari: i guanti neri o l’occhio in primo piano che spia. Trovate che hanno fatto epoca, elementi fondanti che hanno contribuito a decretare il successo del genere thriller. Ma il massimo tocco di genio è nella scelta di mostrarci la soggettiva dell’assassino, facendoci vedere le cose secondo la sua percezione distorta. Memorabile la sequenza (che ha reso celebre il film) del killer nascosto nel buio che spia la ragazza muta mentre si guarda allo specchio. La giovane Helen ci appare senza bocca, sottolineando il suo handicap per come viene percepito dagli occhi del maniaco. In tanti hanno poi utilizzato questo tecnica con risultati straordinari, da Mario Bava a Brian De Palma, da Dario Argento a Michael Powell, solo per citarne alcuni. Il direttore della fotografia, Nicholas Musuraca, è lo stesso del fenomenale Il bacio della pantera (e si vede!). Le atmosfere gotiche e l’estrema cura della confezione tecnica, in accordo all’abilità “germanica” del regista, sono gli ulteriori pregi di questo grande classico del genere, una pietra miliare in cui l’estetica padroneggia e supera il contenuto effettivo.

La frase:Adoro le donne quando piangono. È una cosa che piace sempre agli uomini: li fa sentire superiori.”

Voto:
voto: 4/5

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