martedì 12 aprile 2016

Un matrimonio (A Wedding, 1978) di Robert Altman

Due ricche famiglie del midwest si riuniscono in una grande villa sul lago Michigan per festeggiare le nozze di Dino Corelli e “Meringa” Brenner. Entrambe le famiglie appartengono a quella schiera di arricchiti volgari tipicamente tronfi e un po’ patetici. L’improvvisa morte della nonna Nettie, da tenere nascosta agli invitati fino alla fine della festa nuziale, darà origine a un grottesco circo di ipocrisie, meschinità e figuracce in cui ciascuno dei presenti saprà mostrare i suoi tanti vizi e i suoi pochi pregi. Crudele commedia nera di Altman sotto forma di velenosa satira sociale, che colpisce, con beffarda impudenza, il malcostume, l’arroganza e la sconcezza di alcuni ceti della collettività statunitense (tra questi vi sono anche un certo prototipo di italoamericani). L’autore usa tutta la sua proverbiale perfidia per tratteggiare questo strepitoso e colorito carnevale antropologico, affresco al vetriolo di un’America becera e triviale, arricchitasi oltre misura (e oltre i propri meriti) grazie alla rapace furbizia. Il grande cast corale (ben 48 personaggi!) esaspera il modello del suo capolavoro Nashville ed evidenzia l’incredibile maestria del regista nel sapersi muovere con leggerezza in un turbinio di storie e di situazioni, dando vita a geniali momenti tragicomici. Altman non fa sconti e maltratta praticamente tutti i personaggi, evidenziandone il malessere interiore, il disagio esistenziale, la profonda amoralità ed il conformismo ipocrita. Del ricco cast citiamo Desi Arnaz Jr, Amy Stryker, Geraldine Chaplin, Mia Farrow, Lillian Gish e gli italiani Vittorio Gassman e Gigi Proietti. Il racconto procede in modo circolare, immersivo e non lineare, sottolineando i rapporti multipli e simultanei tra gli invitati alla festa, e ponendo il pubblico al loro stesso livello come se fosse uno di loro. Questo tipo di tecnica è ispirata a quelle avanguardie teatrali a cui Altman si è spesso rivolto nelle sue feroci commedie corali. La veridicità sociologica dell’affresco, per alcuni troppo caotico, è, a volte, sacrificata sull’altare dell’evidente distorsione caricaturale attuata dall’autore, che amplifica i bersagli della sua critica per elevarli a simboli archetipi. L’abbattimento canzonatorio dei modelli istituzionali (famiglia, matrimonio, religione) e l’enfatizzazione dell’eterno dualismo snobistico tra vecchi e nuovi ricchi, fanno parte dell’irriverente stile altmaniano, che pone sempre l’America contemporanea al centro dei suoi interessi caustici. La coesistenza di toni differenti in questo variopinto mélange di meschina umanità è palesata dal sottile senso di morte che aleggia costantemente, fin dalle prime sequenze, su un film oggettivamente molto divertente. L’irresistibile finale derisorio, in bilico tra comico e tragico, è l’ultima beffa del “diavolo” di nome Robert, il più cinico e intelligente tra i registi americani della sua generazione.

Voto:
voto: 4,5/5

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