L’eroe Giasone sbarca nella Colchide
insieme agli Argonauti alla ricerca del mitico Vello d’Oro. Riuscirà
nell’impresa grazie alla regina barbara Medea, che lo aiuta con i suoi poteri
magici e le sue visioni. Innamoratasi dell’uomo, Medea lo segue al suo ritorno
a Corinto, dove i due concepiranno due figli. Ma Giasone intende lasciarla per
sposare Glauce, provocando la folle ira della donna, accecata dalla gelosia. La
vendetta di Medea sarà terribile. Dopo il buon esito di Edipo Re, Pasolini torna ad adattare una grande tragedia classica
(stavolta di Euripide), per utilizzare l’antico mito come metafora della realtà
contemporanea. L’intento del regista è quello di raccontare il passaggio dal
mondo antico (religioso, spirituale e ancestrale) a quello moderno (laico, materiale
e sviluppato) attraverso un impasto di innocenza e crudeltà, barbaro e sublime,
filosofia e melodramma. Il suo chiaro proposito è sancire la superiorità
indubbia dell’antico rispetto al moderno, auspicandone un nostalgico ritorno,
in accordo alla sua utopia anticapitalistica. Non tutto funziona e se, da un
lato, il film è di grande fascino figurativo, eccellente nella composizione
delle immagini, nel cromatismo espressivo e nei suoi reali scenari esotici (fu
girato quasi interamente in Siria e in Turchia, mentre la piazza di Corinto fu
“riscostruita” a Pisa), dall’altro risulta un po’ debole nelle sue
contaminazioni, eccessivo nella visualizzazione dei sogni di Medea e
squilibrato nella sua oscillazione tra mito e ideologia. Vi sono momenti di
alto lirismo alternati a passaggi didascalici che ne appesantiscono la
fruizione, rendendolo un affresco potente ma irrisolto, a tratti ermetico, in
bilico tra antropologia, psicanalisi e politica. La verosimiglianza delle sue
sequenze è assoluta, ma il manierismo dottrinario dell’autore lo carica di
eccessive ampollosità e di un radicalismo metaforico a volte forzato. Nel cast
svetta Maria Callas, interprete d’eccezione per una Medea lirica e tormentata.
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